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Una guerra all’Occidente

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Una guerra all’Occidente

  • –Alberto Negri

Alberto Negri

Nella luce del mattino, dopo il massacro del Bardo, tutto appare più chiaro e brutale come la voce della storia che invita a non prenderci in giro, come suggeriva da Berlino Christopher Isherwood alla vigilia dell'ascesa del Terzo Reich:la rivoluzione dei gelsomini è appassita e la Tunisia, come dice il suo presidente, è in guerra.

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Non è soltanto una guerra ai jihadisti ma anche alla povertà, alle debolezze strutturali dello stato. Per questo la società civile si è mobilitata in Avenue Bourghiba, cuore pulsante della capitale: sente la gravità del momento, che in Italia arriva tragicamente con il bilancio delle vittime e forse persino nelle ovattate cancellerie del Nord Europa.

Ma questo dramma non è una sorpresa così inaspettata. Due anni dopo la rivoluzione tornai all’Università per cercare Nadra, studentessa di architettura esile e con i lunghi capelli neri, che avevo incontrato mentre impugnava un cartello: “Lavoro, Libertà, Dignità”. Erano questi gli obiettivi della rivolta e al primo posto c’era la mancanza di lavoro, causa profonda del malessere tunisino. Una sua amica mi informò che Nadra era emigrata nel Golfo. «L’economia - diceva - va peggio che sotto la dittatura».

L’Università Manouba era stata invasa dai salafiti che avevano innalzato la bandiera nera di Al Qaeda che dopo sarebbe diventata anche il vessillo del Califfato. Il governo islamico di Ennhada aveva tollerato che occupassero l'ateneo imponendo il niqab, il velo, alle donne, nella patria fondata dal superlaico Habib Bourghiba.

La Tunisia, dove nel 2013 vennero uccisi due esponenti laici come Choukri Belaid e Mohammed Brahmi, è stata percorsa in questi anni da predicatori provenienti dal Golfo e finanziati dalle monarchie del petrolio. Persino la moschea centrale era caduta sotto il loro controllo.

Qui gli imam hanno arruolato volontari per la Siria e la Libia pescando nel grande esercito dei disoccupati. In Tunisia 7 diplomati e laureati su 10 sono senza lavoro; nell'interno, lontano dalla vetrina della costa che campa con il turismo, la disoccupazione supera il 50%: sotto Ben Ali questi dati erano nascosti da statistiche imbellettate per gli inutili rapporti della Banca Mondiale. Dalla rivoluzione a oggi sono arrivati meno di 3 miliardi di dollari: ne erano stati promessi cinque volte di più per sostenere la transizione. Il tycoon Tarek Ben Ammar qualche tempo fa fu esplicito: «Quello che ci ha dato l’Europa è una mancia, quasi un insulto».

Dietro l’attentato di Tunisi vi sono diverse motivazioni. È innegabile che la Tunisia è un obiettivo, in quanto unico esempio nell’area di transizione democratica. Allo stesso tempo è immersa in un contesto vulcanico, a stretto contatto con il caos della Libia e con frontiere porose infiltrate dai jihadisti del Maghreb o che tornano dai campi di battaglia di Iraq e Siria.

Né la polizia tunisina, e tanto meno i militari dell'esercito nazionale, poco numeroso e male addestrato, sono in grado di tenere tutto il Paese. Oltre al sostegno economico, l'Unione europea e l'Italia dovrebbero concentrarsi su altri aspetti della questione _ aiuti militari e intelligence _ per sostenere la lotta al terrorismo, consapevoli che come nel caso libico si tratta di una minaccia anche per la sponda Nord. Se l'Occidente lascia sola la Tunisia saranno altri a occupare il vuoto: regimi arabi e movimenti musulmani che non hanno nessun interesse alla democrazia ma che intendono imporre la loro versione retrograda dell'Islam.

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