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dietro Usa e Francia

Airbnb vola in Italia: è il terzo mercato al mondo per gli affitti temporanei

È di qualche giorno fa la notizia relativa al valore di Airbnb: 24 miliardi di dollari, più di Marriot, una delle catene alberghiere più importanti al mondo. Miracoli della sharing economy. La società californiana che organizza l'affitto temporaneo di camere e appartamenti, del resto, ha fatto un po' da apripista a questo nuovo macrocosmo economico definito da Rifkin una vera e propria rivoluzione industriale. E come ogni fenomeno di successo non sono mancate le fasi delle polemiche e delle incomprensioni. Ostacoli che non hanno impedito ad Airbnb di continuare a macinare numeri su numeri in tutto il mondo, anche in Italia. Anzi, soprattutto in Italia. Già, perché un po' a sorpresa il nostro Paese è il terzo al mondo nella classifica interna del colosso californiano, preceduto solamente da Stati Uniti e Francia.

Airbnb in Italia è guidata da un giovane di origini pugliesi, Matteo Stifanelli, diventato Country Manager dopo un breve periodo di stage a Berlino. Cosa faceva Stifanelli prima? Semplice, l'affittacamere su Airbnb. Ce lo racconta davanti a una macedonia di frutti esotici, in un locale del centro, a Milano. «Quando ho scoperto Aibnb ne sono rimasto folgorato. Ho creato un sito in italiano che spiegava il funzionamento (all'epoca la piattaforma era solo in inglese, ndr), ho iniziato a fare rete con gli altri host della mia città. Ho creduto in questa idea, e dopo mesi mi contattarono dagli Stati Uniti. Oggi è il mio lavoro».

A Milano, in via Ripamonti, Airbnb ha i suoi uffici con una quindicina di dipendenti. Orari elastici, clima amichevole. «È un po' la filosofia di questa azienda». Azienda che, come dicevamo, in Italia va fortissimo. È lo stesso Stifanelli a fornirci i dati ufficiali: «Più di 2 milioni e 700mila viaggiatori hanno soggiornato con Airbnb in Italia dal 2008 a oggi. In questo momento abbiamo più di 150.000 alloggi disponibili e la crescita, anno su anno in questo momento è del 99%». Niente male. «Sì, aggiungo che nel 2012 abbiamo calcolato una crescita del 650%». E l'effetto Expo, esiste? «Certo che esiste – ci conferma il country manager di Airbnb – a Milano abbiamo quadruplicato le prenotazioni, rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso». La suddivisione fra host “occasionali” e “professionali”, invece, rimane poco chiara: «Non riusciamo a fornire i numeri suddivisi in base alle due categorie» dice Stifanelli. E anche dal punto di vista strettamente economico non ci sono indicazione: «Questi dati non li condividiamo».

Fin qui i numeri, insomma. Poi, però, c'è tutto il resto. Le accuse di concorrenza sleale, i limiti della sharing economy che spesso si trasforma in business e basta, un sistema normativo troppo datato per dare la giusta direzione alle innovazioni: «In città come Parigi, Amsterdam e Londra sono stati imposti dei limiti temporali, oltrepassati i quali se affitti il tuo appartamento, una tua stanza, devi cambiare la destinazione d'uso e devi comportarti come una struttura professionale» ci racconta il capo di Airbnb. E in Italia? «Stiamo lavorando con le istituzioni, ma per il momento questa limitazione non esiste». Quindi è ancora semplice, da noi, sforare in qualcosa di diverso dalla sharing economy? «Posso dirti che i nostri controlli sono asfissianti».

Che si tratti di host professionali o di occasionali, i nostri iscritti devono rispettare le regole. Airbnb ha contribuito in modo netto, e continua a farlo, all'emersione del “nero” che si annida nel settore immobiliare. Con noi ogni movimento è registrato. Non si scappa. E periodicamente inoltriamo ai nostri host delle mail nelle quali li invitiamo a pagare le tasse sui compensi percepiti». La transazione finanziaria è il business di Airbnb, che trattiene il 3% da chi propone una stanza e il 10% da chi la prende in fitto. Transazioni che, per l'Europa, passano tutte dall'Irlanda, dove Airbnb ha la sede legale e dove, al pari di altre big company americane, la società californiana paga le tasse.

Le accuse di responsabilità sulla possibile disgregazione dello stato sociale, però, Stifanelli non le condivide: «Io credo che nel termine sharing economy oggi ci sia entrato un po' tutto. E per questo si rischia di fare confusione, creando un danno a chi poi la pratica veramente e senza fare il furbo. Noi siamo chiarissimi con i nostri host: questo non è un lavoro. E' una condivisione di qualcosa che hai». Ci sono però esempi di introiti considerevoli, e poi ci sono i professionisti, quelli che usano Airbnb ma di economia della condivisione non hanno niente: «È vero, vanno un po' contro quello che è il nostro Dna. Sono inquadrati come professionisti, dal punto di vista normativo. Ma abbiamo deciso di ospitarli sulla nostra piattaforma perché comunque appartengono al mondo dei viaggi». È innegabile, però, che alla base ci sia una chiara ragione di business. Ma la sharing economy, del resto, sta nel concetto del servizio, non nell'azienda che lo rende possibile.

Twitter @biagiosimonetta

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