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Uber non fornisce i dati, il giudice la multa per 7,3 milioni

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la sentenza in california

Uber non fornisce i dati, il giudice la multa per 7,3 milioni

È un 2015 di contrasti in casa Uber. Da una parte il valore aziendale che continua a crescere, battendo record su record e facendo della società californiana la startup di maggior successo al mondo. Dall'altra le aule di tribunale, dove le cattive notizie sono all'ordine del giorno. E non è solo un fatto di Europa, continente problematico e carico di divieti per la App del trasporto condiviso. Negli ultimi giorni i grattacapi per Uber arrivano dalla stessa California. Prima un giudice (qualche settimana fa, ndr) che accogliendo il ricorso di una driver impone all'azienda di San Francisco di inquadrare tutti gli autisti come dipendenti, e non più come prestatori d'opera. Una sentenza la cui eco si farà sentire nei prossimi mesi, e gli effetti potrebbero essere devastanti. Qualche ora fa, invece, una nuova tegola: una multa da 7,3 milioni di dollari e il rischio di sospensione del servizio per 30 giorni. La causa? Non aver fornito i dati richiesti.

Tutto è iniziato lo scorso anno, quando la Public Utilities Commission della California chiede a Uber di fornire alcuni dati relativi al suo servizio, tra i quali: il numero di clienti che ha richiesto un'auto con accesso per disabili; il numero di incidenti che ha coinvolto i conducenti Uber; il numero di corse richieste e accettate da ogni pilota e il relativo importo pagato.

Richieste che Uber avrebbe dovuto soddisfare entro il primo settembre del 2014.

Risultato? La società californiana non ha risposto e qualche ora fa è scattata la multa. Multa alla quale ora potrebbe essere aggiunta una sospensione del servizio di 30 giorni sul territorio californiano.

Intanto Eva Behrend, portavoce di Uber, in un comunicato ha definito la multa «profondamente deludente» e ha annunciato un ricorso. «Uber ha già fornito un numero consistente di dati alla Public Utilities della California: informazioni che abbiamo fornito altrove senza problemi», ha affermato indicando che la diffusione di ulteriori dettagli comprometterebbe la privacy dei passeggeri e dei guidatori. Secondo Uber, dunque, il vero problema è la privacy degli utenti. Ma che la società californiana, come molte altre multinazionali, sia restia a fornire i dati relativi alla propria attività è un fatto consolidato, anche in Italia. Benedetta Arese Lucini, General manager di Uber Italia, in occasione delle sue interviste si è spesso trincerata dietro risposte come: «Non forniamo questi dati» o «non diamo numeri precisi». Una tattica che evidentemente non piace molto ai giudici. E che questa volta è costata 7,3 milioni di dollari.

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