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L’istruzione universitaria fa la differenza nel mondo del lavoro. Ma…

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L’istruzione universitaria fa la differenza nel mondo del lavoro. Ma è in calo la spesa pubblica per la scuola

L’istruzione scolastica non è mai stata così diffusa in tutto il mondo: mai come ora bambini e ragazzi possono frequentare scuole rappresentando la possibilità concreta di migliorare le condizioni di vita per loro e per la loro comunità. Nei Paesi sviluppati il livello d’istruzione si va sempre più specializzando e “professionalizzando”, sia dal punto di vista della formazione tecnica che di quella post-laurea. È proprio quest’ultima in grande espansione nei Paesi industrializzati, secondo quanto emerge dal rapporto annuale dell’Ocse.

Insomma, l’istruzione è un inverstimento che conviene ai singoli e agli Stati. I numeri dell’Ocse sono chiari: gli adulti che arrivano all’istruzione terziaria (quella post-universitaria) raggiungono tassi di occupazione superiori all’80% rispetto al 70% dei laureati e dei diplomati di secondaria superiore e al livello inferiore al 60% per chi si è fermato prima, alla secondaria inferiore.

Lo stesso vale per i livelli di remunerazione: gli studenti che hanno raggiunto un master o altra specializzazione equivalente guadagnano in media quasi il 60% in più rispetto a chi si è fermato al diploma di secondaria superiore. E lo stesso master “vale” in termini di stipendio, che risulta quasi il doppio rispetto a chi ha ottenuto un “bachelor”, diciamo una laurea breve (triennale) italiana.

Ma “i vantaggi derivanti dall’educazione non sono soltanto sotto il profilo finanziario”, afferma il rapporto che mette a confronto i sistemi scolastici dei 34 paesi Ocse, quelli più sviluppati del mondo occidentale: “Gli adulti con livelli d’istruzione più elevata sono di solito in buona salute, partecipano ad attività di volontariato, hanno un atteggiamento di fiducia nei confronti degli altri e condividono le scelte politiche”. In altre parole tendono a partecipare in maniera attiva alla vita sociale.

Ma quello che emerge è che l’istruzione tende sempre più ad affinare, sia a livello di secondaria e di formazione tecnica, che post-universitaria, le competenze fornite agli studenti in modo che siano sempre più in linea con un mondo del lavoro in grande evoluzione. E questo è tanto più vero in Italia, dove l’Ocse denuncia una maggior distanza rispetto agli altri paesi. Nonostante gli sforzi nella formazione professionale, gli istituti tecnici stentano a decollare: al ciclo terziario breve professionalizzante (questa la dizione tecnica) è iscritto solo lo 0,2% degli studenti italiani contro una media Ocse dell’11%. Solo il 42% dei giovani si prevede che si iscriva ai programmi di istruzione terziaria, la quota minore nell’Ocse dopo Lussemburgo e Messico.

Nonostante la riconosciuta rilevanza del sistema scolastico, gli investimenti pubblici hanno registrato una contrazione in più di un paese su tre come ricaduta della crisi: attualmente siamo a un livello del 5,2% del Pil come media Ocse (in Italia ci fermiamo al 3,9%). La flessione ha avuto un impatto diretto sugli stipendi degli insegnanti, anche se in alcuni paesi il dato ha registrato una dinamica in ripresa. In ogni caso in tutti i Paesi industrializzati gli insegnanti guadagnano meno dei loro cittadini con pari livello di istruzione, una divergenza che va dal 78% degli insegnanti di primaria e prescolastica all’82% di quelli di secondaria superiore (neanche a dirlo in Italia la situazione è peggiore). Il che rappresenta obiettivamente un ostacolo: “Queste differenze incomprensibili renderanno ben più difficile attrarre le migliori professionalità verso l’insegnamento”.

Come se non bastasse in tutti i paesi Ocse gli insegnanti stanno invecchiando: nel 2013 il 36% dei professori di scuola secondaria superiore aveva più di 50 anni, con una crescita di tre punti percentuali rispetto al 2005. L’Italia è messa peggio anche su questo fronte, con i livelli più elevati dell’Ocse: il 57% degli insegnanti della primaria, il 73% della secondaria superiore e il 51% della terziaria erano over 50. Ma questo elemento si trasforma in una potenzialità: “Essendo prevedibile che molti di questi docenti andranno in pensione nel prossimo decennio - afferma il rapporto -, l’Italia si trova di fronte a un’opportunità senza precedenti per ridefinire la professione”.

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