“Nel corso di quel viaggio, però, dovetti sopportare in tutto ventisette paurose tempeste; e se aggiungo quella nei pressi delle isole Caroline, ventotto; ma non voglio parlare di quelle furie: erano troppo disumane; e come feci a uscirne vivo, cosa che nemmeno nei miei più folli sogno mi sarei aspettato, lo sa soltanto Qualcuno, o Qualcosa.”
Quando la letteratura si incarna dentro un interno libro, cioè dalla lingua alla sua aura fino all'ansietà che costringe all'ultimazione della lettura, allora di esso, con beata facilità, si ricorderanno per sempre le pagine. E' questa sacra armonia che si compie nel libro di M. P. Shiel: “La nube purpurea”. Romanzo apocalittico che, grazie alla fertilità concessiva del proprio genere madre, la fantascienza, sguscia oltre i limiti configurandosi quale uno strano animale immortale dotato d'un linguaggio di possente raffinatezza stilistica.
La trama inizia colla partecipazione del medico inglese, botanico e aiuto meteorologo Adam Jeffson alla spedizione (sulla nave Boreal), verso il Polo Nord. Viaggio che però nel suo corso piano piano si imbroglia. Le tempeste gelide, gli animali delle nevi, morenti, l'assestamento dei ghiacci e il loro sconquasso, e infine l'intervento di quel metafisico “Potere delle Tenebre”, come specifica Shiel, che cova in sé l'Artico e il suo freddo inattaccabile in grado di cangiare diabolicamente l'atto umano ai fini della gloria, decimano infatti l'equipaggio sino a ridurlo a un unico uomo, Jeffson appunto.
Giunto questi alla zona più abissale del Polo incontrerà una pianura terrificante di sassi meteoritici distesi lungo ghiacciai con sorpresa levigati. E' in questa impossibile deformazione naturale che si materializza la catastrofe della Terra; specificamente si erge una bassa colonna di ghiaccio nominata, datata e attorniata d'una cosa fluida tremante che per arraffata definizione sembrerebbe aliena e che invece Jeffson svela vivente, forse attraverso la scienza estranea intromessasi in lui tramite possessione.
“…Ed ebbi l'impressione, o sogno, o fantasia, che intorno al ghiacciaio della colonna c'era un nome scritto in caratteri che non si potranno mai leggere; e sotto il nome una lunga data; e il liquido del lago sembrava girare in un'estasi tremante, con quel rumore di ali e di cascate, attorno alla colonna, da ovest a est, col roteare del pianeta; e mi fu dato sapere- ma non posso dire come- che il fluido era la sostanza di un essere vivente.”
Della catastrofe in compimento Jeffson scorge di essa l'omicidiaria trasformazione, attraverso il cielo, il settimo giorno, in marcia verso sud, di ritorno: una fascia stesa sull'orizzonte, una nube di colore purpureo in grado di oscurare il volto del sole. La nube rossiccia, la quale è più una Cosa misconosciuta, vaporosa, che ha ucciso gli abitanti di tutta la Terra. Così, il medico si scopre, nel camminamento in nave verso l'Europa e il resto del mondo (Londra, Bombay, Dover, Parigi, Costantinopoli, Morea, Grecia ecc), essere il solo superstite, monarca di un globo scheletrico.
In questa solitudine, in cui incontra spoglie di persone cadaverine, luoghi invasi dal nulla, metropoli in preda al disfacimento materiale, case ormai ombra di quando erano vive, decide di incendiare le città, farsi, in definitiva, sopraffare dalla perversione demònica. Regnare maleficamente per distruzione e non creazione.
“Confiderò alla carta di questo segreto profondo dell'organismo umano…? A mano a mano che faticavo, diventavo perverso come un demone! E mi aggiravo col collo contratto, e il ventre spinto in fuori, e l'empio borioso incedere degli attori tragici; per qui non si trattava di innocui fuochi d'artificio, bensì del delitto di incendio doloso; una diabolica, per quanto vaga, malevolenza, e un furore di stritolare e devastare e scatenarmi si erano impossessati in me, come una rabbia canina, lo spirito stesso di Nerone e di Nabucodonosor, e dalla mia bocca fuoriuscivano tutte le oscenità dei bassifondi e delle fogne…”
La desolazione dell'anima, le meditazioni forzate, fanno di Jeffson un vate e oratore solitario, un eroe fantascientifico dalla lingua metafisica, la voce di quella nuova Terra che parla tramite segreti a lui soltanto sussurrati. Ma seppure appaia il protagonista condannato a una morte senza compagnia, arriverà forse un'ultima luce, una regina analfabeta ad attenuare questo suo viaggio funereo dove le meteore cavalcano per il cielo come soli fumanti, infernalmente illuminando a giorno molte miglia di mare e di terra.
“…Rimase lì a guardarmi fissamente, finché, districata la realtà dal sogno e dall'abitudine, capì che ero io…”
La nube purpurea, di M. P. Shiel, Adelphi, (traduzione di J. Rodolfo Wilcock)
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