Il fondo di private equity Francisco Partners, con sede a San Francisco, ha pubblicato recentemente un'eccellente analisi di grande rilevanza per chiunque voglia avere qualche indicazione sul futuro dei titoli azionari delle imprese high-tech. È un bollettino che può dare motivi di speranza tanto ai pessimisti quanto agli ottimisti, e offre un punto di vista utile per chi si interroga sulle valutazioni correnti delle imprese del settore.
Cominciamo dalle cattive notizie. Le 15 aziende high-tech che avevano la maggiore capitalizzazione di mercato nel 2000 sono state decimate, con una perdita di circa 1.350 miliardi di dollari, più o meno il 60 per cento del loro valore di mercato complessivo.
Solo una, la Microsoft, ha una capitalizzazione superiore a quella del 2000. Un aspetto straordinario di questo tracollo è che non ha interessato, come si potrebbe pensare, le strombazzatissime aziende internet del recente passato: al contrario, ha colpito gran parte di quelle che erano considerate le blue chip del comparto tecnologico.
Nel 2000, la Nortel sfoggiava un valore di mercato di 209 miliardi di dollari, ingigantito, come per le sue colleghe, dall'entusiasmo dell'epoca; nel frattempo ha dichiarato bancarotta. Altri esponenti del settore hanno evitato una simile ignominia, ma il grafico di lungo periodo dei loro titoli azionari presenta un'immagine alquanto sconfortante: il valore di mercato della Cisco si è rimpicciolito da 403 a 144 miliardi di dollari, quello dell'Intel da 288 a 161 e quello della Emc da 218 a 51.
Per la classe del 2000, i prezzi delle case a «Technotown» sono scesi soprattutto nei quartieri dei sistemi, dell'hardware e dei semiconduttori. Le ragioni sono il calo continuato dei costi di calcolo, l'ascesa del software open-source, lo spostamento dei dati sulla «nuvola» e la comparsa di colossali centri dati dove aziende come Amazon, Google e Facebook progettano i loro approcci.
Ora una parola dalle zone dove il clima è più soleggiato. Quindici aziende che messe insieme valevano meno di 10 miliardi di dollari nel 2000 adesso figurano fra le 50 maggiori imprese tecnologiche in termini di capitalizzazione di mercato, per un valore complessivo di 2.100 miliardi di dollari. (Se includiamo nel conto anche Amazon, invece di inserirla nel comparto del commercio al dettaglio, la cifra sale di altri 250 miliardi.)
La Apple, che ancora nel 2000 era considerata poco più che una curiosità, è passata da 6 a 659 miliardi di dollari. A scorrere questo elenco saltano all'occhio alcuni temi ricorrenti: la forza della novità, lo spostamento verso la Cina, i benefici della pazienza e le virtù dell'efficienza del capitale.
Molte delle aziende high-tech che oggi valgono di più nel 2000 non esistevano neppure. Facebook, LinkedIn e Twitter sommate insieme arrivano appena a 33 anni di anzianità. Perfino Google e Salesforce nel 2000 erano soltanto delle sagome all'orizzonte. Oggi queste aziende, complessivamente, valgono 850 miliardi di dollari. A parte i sistemi «customizzati» che usano nei loro centri dati, e nel caso di Google qualche attività collaterale come i telefoni Nexus e i portatili Chrome, nessuna di loro si sporca le mani con cose gravose come l'hardware. Hanno costruito le loro fortune sulla sapiente distribuzione di software, in particolare nella variante cloud-based, e – nel caso di Facebook, LinkedIn, Twitter (e il servizio YouTube di Google) – organizzando e collazionando i contributi dei loro utenti.
Ammucchiate insieme al quarto, quinto e sesto posto nella classifica delle aziende high-tech più preziose di oggi ci sono Alibaba, Tencent e Baidu. Un terzetto che vale ormai 409 miliardi di dollari, prova dei progressi fatti dalla Cina nell'ultimo decennio e mezzo e preannuncio della tendenza dei decenni a venire, considerando che Pechino punta sempre di più a produrre in proprio le sue tecnologie.
Un destino gramo attende quelle aziende high-tech occidentali che sottovaluteranno la portata della sfida rappresentata dal grandissimo numero di concorrenti cinesi che stanno emergendo, sospinti da un'ambizione e da un regime lavorativo difficili da eguagliare in Europa e negli Usa.
Per concludere, un'osservazione su altri due temi che saltano all'occhio da questo elenco: la pazienza e i profitti.
Quasi tutti quelli che investono in aziende tecnologiche sperperano enormi somme di denaro inseguendo frenesie estemporanee e manie globali, invece di concentrarsi sulla forza duratura di quelle imprese emergenti che sono dal lato giusto della storia.
E per i fondatori e gli amministratori delegati di tutti gli «unicorni» miliardari correnti, c'è un altro messaggio a lunga scadenza. Quasi tutti i colossi odierni dell'high-tech nati intorno al 2008 sono stati creati con un apporto di capitali contenuto. Google, per esempio, ha consumato solo 8 milioni di dollari prima di diventare redditizio. Significa che presto o tardi diventerà di moda una nuova categoria di aziende, una specie rara nota come l'unicorno redditizio.
L'autore è presidente del fondo di investimenti di rischio Sequoia Capital ed è autore, insieme a Sir Alex Ferguson, di Leading. Le opinioni qui espresse sono sue personali. Esponenti del fondo Sequoia Capital detengono interessi in alcune delle aziende menzionate.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© Riproduzione riservata