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La mente artificiale? Serve più memoria

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La mente artificiale? Serve più memoria

Marvin Minsky è stato, tra i padri dell’intelligenza artificiale, quello che più ha incarnato l’incanto per la ricerca di frontiera e il disincanto verso le promesse di progressi imminenti nella disciplina. Fino all’ultimo, certo. Ma anche fin dall’inizio, grazie a quel soffio di maturità giovanile che distingue i grandi scienziati dagli addetti ai lavori. I secondi, per diventare saggi, hanno bisogno quantomeno di invecchiare.

Minsky no. Lui era sopravvissuto a due lunghi inverni dell’intelligenza artificiale.

Gli “Ai winter” sono periodi che seguono a stagioni caratterizzate da un entusiasmo diffuso e fuori controllo nei confronti della ricerca sull’intelligenza artificiale. Entusiasmo che, quando appare chiaro che le sfide rimangono “da vincere”, genera una catena di reazioni. Si inizia con lo sconforto della comunità scientifica. Segue il pessimismo della stampa e degli imprenditori. Poi una forte riduzione dei finanziamenti e l’interruzione dei programmi di ricerca.

Il primo inverno dell’intelligenza artificiale iniziò nel 1970. La “bolla” scoppiò con il fallimento dei traduttori automatici. È interessante ripercorrere le tappe di quella storia.

All’inizio degli anni 50, il Mit di Boston, con i primi risultati, getta le basi per la ricerca sui traduttori automatici. Il 7 gennaio del 1954, alla Georgetown University va in scena una dimostrazione pubblica, nota come “l’esperimento Georgetown-Ibm”: un algoritmo traduce dal russo all’inglese più di 60 frasi. È un successo. L'interessi di aziende e governi cresce. Programmi di ricerca in “machine translation” vengono finanziati anche in Russia e in Giappone. Nel 1956, a Londra, si tiene la prima conferenza internazionale. Si continua a fare ricerca, i progressi ci sono, ma sono lenti, molto più lenti del previsto. Fino a quanto, nel 1966, un report dell’Alpac (Automatic language processing advisory committee), il comitato tecnico incaricato dal governo Usa di valutare i progressi compiuti, ammette che «10 anni di ricerca nella linguistica computazionale hanno fallito». Con la stessa velocità con cui erano stati approvati, i finanziamenti subiscono drastiche riduzioni. Promettenti filoni di ricerca vengono congelati. Fu solo la prima di una serie di delusioni. Nel 1970, la comunità deve alzare bandiera bianca sulle promesse del “connettivismo”, in seguito ai limiti dimostrati proprio da Minsky (nel libro «Perceptrons», del 1969). Per una rivalutazione delle reti neurali artificiali e del loro ruolo nella rappresentazione degli stati mentali, bisognerà aspettare quasi 10 anni. Perché, ormai, sull’intelligenza artificiale era caduto l’inverno.

Il termine “Ai winter” venne usato per la prima volta in un dibattito pubblico nel 1984, durante la riunione annuale della Aaai (American association of artificial intelligence). Due ricercatori sopravvissuti all’inverno degli anni 70 mettono in guardia la comunità sul fatto che l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale era di nuovo «fuori controllo»: presto sarebbero seguite «nuove delusioni». In pochi presero sul serio quel monito. Non c’era tempo per le Cassande: negli uffici stavano arrivando le prime Lisp Machines, le “nonne” dei nostri pc nate nei laboratori del Mit. Eppure, tre anni dopo, non solo il mercato delle Lisp, ma l’intera industria miliardaria dell’intelligenza artificiale iniziò a crollare. I due ricercatori che con tre anni di anticipo avevano previsto quel nuovo inverno si chiamavano Marvin Minsky e Roger Schank.

Roger Schank oggi ha 70 anni. Si autodefinisce «professore in pensione, consulente part-time, educatore rivoluzionario full-time». Un recente post del suo blog ha un titolo che suona più o meno così: «Le falsificazioni di Ibm su Watson e l’Intelligenza artificiale». Watson è il sistema di intelligenza artificiale capace di comprendere il linguaggio naturale, su cui sta puntando Ibm. Esiste già un’applicazione commerciale, rivolta ad assicurazioni e ospedali, per lo studio di immagini legate alla diagnosi e alla cura del tumore ai polmoni. Schank spiega perché, a suo parere, il sistema-Watson «non è ancora cognitive computing». E invita Imb «a fermarsi», a «ridimensionare le aspettative» e a «dire solo quello che davvero Watson sa fare». Il post si chiude con una nota amara: «Ai winter is coming soon». La storia sta per ripetersi?

«Non credo – spiega a Nòva Yoshua Bengio, dell’Università di Montreal, oggi tra i più influenti ricercatori in intelligenza artificiale – che nel breve termine esista un tale pericolo. Anche in assenza di nuovi progressi e nuove scoperte, basterà sviluppare applicazioni ben fatte delle attuali conoscenze per avere un grande impatto sulla società». Se questo è il programma, il rischio di creare aspettative elevate è il pericolo da evitare: quando procede lentamente, il cambiamento è più facile da fermare.

Segnali che suggeriscono cautela, del resto, non mancano. Microsoft e Google hanno reso open-source i loro algoritmi di intelligenza artificiale. Massimo Marchiori, l’informatico di Padova che ha inventato l’algoritmo che ha fatto nascere Google, intervistato da Alessandro Longo (si veda l’Aj a lato), dà questa lettura: «Dopo gli sforzi iniziali, tutti hanno avuto problemi: hanno capito che, da soli, non possono farcela». Il filosofo Luciano Floridi (si veda l’Aj a sua firma), descrive i risultati disastrosi dell’edizione 2015 del Loebner Prize, la competizione annuale in cui le macchine provano a superare il test di Turing. E ancora: qualche settimana fa Marco Varone, presidente di Expert System, la società italiana che Microsoft scelse per lo sviluppo del correttore automatico di Word, ha spiegato a Nòva che «nei prossimi 10 anni l’abilità delle macchine nella comprensione dei testi registrerà solo miglioramenti incrementali».

«La maggior parte degli scienziati – prosegue Bengio – non sta mostrando eccessivo ottimismo. Spesso, le esagerazioni vengono dalla stampa, che vuole attrarre l’attenzione dei lettori, e dagli imprenditori, che vogliono attirare l’attenzione di investitori e clienti. Molti di loro sottostimano l’incertezza sulla velocità con cui faremo progressi in futuro. La verità è che alcune sfide per essere vinte potrebbero richiedere due anni, così come 200».

È un fatto che un vecchio professore in pensione come Schank, che annuncia “bolle”, inverni e crolli di investimenti, attiri meno attenzione di Eric Schmidt, presidente di Alphabet, la società di Google che ha da poco sorpassato Apple per capitalizzazione di borsa. Soprattutto quando il secondo dichiara, come ha fatto recentemente, che l’intelligenza artificiale «è pronta a cambiare il mondo». Ma basta un autorevole ottimista per fugare tutti i dubbi?

Proprio tutti, no. Sappiamo, perché è già accaduto, che se scienziati, imprenditori e giornalisti non avranno abbastanza memoria, rallenteranno la corsa dell’intelligenza artificiale. Allora, chi oggi scrive «Ai winter is coming soon» potrebbe avere ragione. Per la seconda volta.

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