
In Italia le startup del settore agricolo sono meno di 20. Quelle che gravitano nel food più di 18 volte tanto: 350. Dove si incontrano i due mondi? Nell'agritech, l'ecosistema che incrocia la filiera tradizionale dei campi con le spinte innovative in arrivo da robotica, biotecnologie ed energie pulite. Nei grandi mercati internazionali, come gli Stati Uniti, il fenomeno è in esplosione.
Dati del Future Food Institute parlano di 4,6 miliardi di dollari “spalmati” in 527 accordi solo nel 2015, dopo un 2014 chiuso con 2,36 miliardi di dollari e 264 accordi. I numeri italiani sono più modesti e soprattutto meno compatti, ma non mancano gli exploit: dai device per la gestione dei campi ai droni per i vitigni di Barolo, dai sensori meteorologici alla produzione di biocarburanti. Sullo sfondo c'è la “vecchia” agricoltura, un mercato che in Italia ha prodotto anche nel 2014 un valore aggiunto di 31,5 miliardi di euro su una produzione di quasi 57 miliardi. Qualche esempio delle neoimprese attive? Horta, spin off dell'Università Cattolica, macina ricavi da 1,5 milioni di euro con i suoi servizi qualificati per le imprese del settore: dai Dss (decision support system, sistemi di supporto per le decisioni gestionali) alle consulenze e al trasferimento di tecnologie nelle filiere. Agroils Technology, statup fiorentina che si descrive come «a metà via tra il bio e il cleantech», lavora sulla coltivazione della pianta latinoamericana jatropha e ha chiuso round di finanziamenti con picchi di 900mila euro. AeroDron, startup emiliana che si occupa di telerilevamento via droni, aveva già archiviato tra 2013 e 2014 un investimento da 400mila euro che supera buona parte dei numeri messi a segno della startup di agroalimentare durante i mesi di Expo. E la lista potrebbe essere lunga: la microalghe per la produzione di biomasse di Algamundi, le commercializzazione della Canna comune per l'agroenergia di Arundo, le varie aziende e joint venture nell'orbita di un mercato biotech che vale solo in Italia oltre 7 miliardi di euro.
Il comune denominatore è proprio l'applicazione all'agrobusiness di competenze e tecnologie di settori diversi, secondo una logica di contaminazione che mira all'aumento di produttività. Una dinamica che spiega bene la latitanza, sulla carta, di imprese innovative disposte a inquadrarsi come «agricole»: sulle 5.150 startup innovative censite a febbraio di quest'anno nella sezione speciale del registro delle imprese della Camera di Commercio d'Italia, le società che rientrano nella categoria sono 15 e quelle dedicate in maniera esplicita alle «coltivazioni» non più di 12. Eppure basta spostare l'obiettivo su segmenti paralleli, dalle scienze della vita alla ricerca, per far crescere il bilancio finale. Come spiega al Sole 24 Ore Raffaele Maiorano, presidente di Anga – Giovani di Confagricoltura, «ci sono tantissime startup che sono legate al mondo dell'agricoltura, ma non sono propriamente “agricole” né è loro interesse esserlo. È per quello che stiamo spingendo sull'open innovation: l'innovazione aperta che si integra nei campi, non l'agricoltura che cerca di innovarsi da sola». Insomma, prosegue Maiorano, «diventano agricole tutte le tecniche che ti permettono di ridurre i costi e aumentare la redditività, dai dispositivi per il meteo all'internet of things. Il futuro? Noi pensiamo Big Data. Li usiamo già ovunque, l'agricoltura non dovrebbe fare eccezione».
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