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    Mezzo miliardo di euro raccolto per le startup. Bene il fundraising ma i fondi investono ancora troppo poco

    I capitali ci sono. Manca “solo” un mercato che li sfrutti. L'innovazione italiana non è ancora riuscita ad attivare un circolo virtuoso tra fondi di ventur capital e investimenti in startup.
    I dati di Aifi (Associazione italiana del private equity e venture capital) parlano, per il 2015, di un totale di appena 122 operazioni e 74 milioni di euro destinati ad aziende in fase di early stage. Un bilancio magro rispetto alla media europea, sia nella quantità che nell'intensità degli investimenti veicolati dai ventur capitalist. Per farsi un'idea: solo tra 2012 e 2014 la Francia ha riservato alle imprese innovative 1,7 miliardi di euro, il Regno Unito 1,8 miliardi, la Germania quasi 2 miliardi. L'Italia si è fermata a 259 milioni, a conferma di un ritardo che viene da lontano: per raggiungere gli 1,8 miliardi di euro cumulati dalla Gran Bretagna in un biennio, il nostro paese ha impiegato 15 anni (2000-2015).

    Visti i numeri si potrebbe pensare a una nicchia che stagna per assenza di materia prima, i finanziamenti privati. E invece i fondi ventur capital che gravitano intorno al Fondo italiano d'investimento (Fii), il primo cornerston investor per il settore, hanno completato le rispettive campagne di fundraising con raccolte tutt'altro che marginali. Dall'incrocio tra i dati del portale Usa CrunchBase e le comunicazioni delle società emerge che i cinque fondi già autorizzati dalla Banca d'Italia (Panakés, P101, United Ventures, Principia, Innogest) vantano una “dote” complessiva di 493 milioni. Una cifra che non fa apparire così infondato l'auspicio di una capacità di investimento da 1 miliardo entro il 2018, come nelle ipotesi dell'associazione Italia Startup.

    Nel dettaglio, si registrano 40 milioni di euro al settembre 2015 per il fondo del med-tech Panakés (in aggiunta alla vincita, più recente, di un finanziamento in arrivo dal Fondo europeo per gli investimenti), 48,6 milioni di euro per P101 (digitale), 70 milioni di euro per United Ventures (tech), 160 milioni di euro per Principia (digitale) e circa 174 milioni di euro per Innogest (ancora med-tech). Ma, allora, che cosa frena un impegno finanziario con numeri simili a quelli della media internazionale?
    Secondo Gianluca Dettori, presidente e fondatore della società di ventur capital dPixel, il ritardo è soprattutto culturale: il problema non sta nella disponibilità di capitali ma nell'assenza di una visione strategica sul mondo delle imprese innovative.

    L'attenuante è che si parla comunque di un sistema giovane, con numeri e portata inferiori ai principali concorrenti nel Continente («ci vorrebbero almeno 20-30 fondi per competere con gli altri mercati europei»). La sfida è uscire dall'impasse e mettere a frutto un patrimonio “potenziale” che, già ora, rende le dimensioni di investimento meno anguste di quanto si potrebbe pensare. A patto che si adotti un paradigma: investire in startup significa investire in aziende tecnologiche con margini di crescita e sostenibilità maggiori di una buona fetta di quelle ancorate alla old economy. «I capitali ci sono, basta far capire che anche ci sono anche rendimenti. Occorre dimostrare che le startup sviluppano un rendimento positivo – dice Dettori - Oltre che ovviamente generare tutto un impatto significativo per il welfare, il gettito, la creazione di posti di lavoro». La questione è di logica finanziaria: secondo Dettori gli investimenti in startup sono una buona strategia di allocazione sul medio-lungo termine, perché si parla di «asset reali» capaci di generare modelli di aziende e reddito con un futuro davanti a sé. «È asset class anti-ciclica. E questi sono, probabilmente, gli anni migliori per investire in startup innovative».
    startup@ilsole24ore.com

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