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Come si racconta un’azienda? Parla Steve Clayton, storyteller di…

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L’INTERVISTA

Come si racconta un’azienda? Parla Steve Clayton, storyteller di Microsoft

«Lavoravo in Microsoft da anni, in Inghilterra, quando ho deciso di aprire un blog. Parlavo dell’azienda, di quello che faceva bene ma anche di quello che si sarebbe potuto fare meglio. Un giorno mi ha chiamato il capo della comunicazione. Credevo volesse licenziarmi, invece mi ha detto: ti andrebbe di venire qui a Seattle a occuparti di storytelling?». Termine ormai abusato, tra politica comunicazione e giornalismo, ma per Steve Clayton è un lavoro: è il Chief Storyteller e responsabile del team immagine e cultura di Microsoft. Ci lavorano 25 persone con il compito di «raccontare Microsoft, non vendere prodotti». Forse tra qualche anno lo storytelling non andrà più di moda, cambierà incarico? «Magari cambierò job title, chissà. Anche prima che si parlasse di storytelling esistevano mansioni simili, magari chiamate blogger o evangelist».

Clayton è in Italia per il Microsoft Forum a Milano, ma ha anche incontrato gli studenti della scuola Holden a Torino e Bocconi a Milano. Lavora dal 1997 in Microsoft, si è occupato di internet, mobile, cloud. «Non ho un background da comunicatore» e infatti si è laureato in Information and Computing alla Loughborough University.

Cosa fa uno storyteller in azienda?
Sono stato il primo ad avere l’incarico di raccontare la storia e le storie dell’azienda. Non un prodotto, l’intera azienda. Avevo il vantaggio di conoscere bene Microsoft e di non aver mai lavorato nell’heaquarter di Redmond. Sono stato lasciato libero di muovermi, parlare con centinaia di persone, lasciarmi stupire.

Quali sono stati i principali progetti?
Come prima cosa abbiamo cambiato la relazione con i media. Prima quando invitavamo i giornalisti nel quartier generale di Redmond finivano in una stanza a vedere prodotti e parlare di software. Abbiamo invece deciso di organizzare dei tour per il campus per fargli vedere cos’è Microsoft, cosa fanno i ricercatori, quali sono le anime dell’azienda. Poi abbiamo scoperto che avevamo delle bellissime storie che comprensibilmente non interessavano ai giornalisti perché non c’erano notizie. Ci siamo ispirati al modello Snowfall del New York Times per raccontare storie visuali. Abbiamo messo in piedi un team dedicato. E sono nate le Microsoft Stories.

Con l’arrivo di Satya Nadella, Microsoft ha cambiato fortemente il suo racconto. Il focus è su produttività e cloud.
Per prima cosa ha deciso di fare lui le demo sul palco perché è un appassionato di tecnologia. Poi ha risposto alla domanda: perché Microsoft esiste? La missione è aiutare le persone con la tecnologia a fare cose incredibili. Abbiamo così deciso di concentarci su storie che raccontassero l’impatto della tecnologia piuttosto che la tecnologia stessa. Per il lancio di Windows 10 al posto di un grande evento in una capitale mondiale, Nadella ha deciso di andare in Kenya per raccontare i nostri progetti per portare connettività alla popolazione.

Su cosa state lavorando adesso?
Sull’integrazione tra mondo fisico e digitale. Con Future Visions, ad esempio, abbiamo invitato alcuni dei principali autori di fantascienza a scrivere delle storie ispirandosi dalle visite nei nostri laboratori di ricerca. Sono disponibili come ebook ma abbiamo anche stampato dei libri di carta.

La scelta di comunicare direttamente con il pubblico impone maggiore responsabilità per le aziende in termini di credibilità?
Vedo che sta crescendo l’interesse a leggere storie prodotte direttamente dalle aziende. Allo stesso tempo c’è fame di informazione indipendente. È chiaro che il nostro messaggio arriva da un punto di vista, ma deve essere genuino. Dico sempre ai miei: non dobbiamo vendere un prodotto, ma raccontare un’azienda, far capire fuori perché un ingegnere decide di lavorarci per oltre 20 anni. Quando ero in Inghilterra, la sede della Microsoft dalla strada appariva come tre palazzi grigi. Il nostro lavoro è far vedere cosa c’è dentro, cambiare questa percezione con la passione per il racconto di persone che fanno grandi cose per cambiare il mondo. Ad esempio l’app Seeing AI di Microsoft, che consente a chi ha problemi alla vista di interagire con il mondo esterno, la spiega in un video un collega non vedente che ha lavorato al progetto.

Fate comunicazione o informazione?
Credo si tratti di comunicazione. Lo storytelling sta diventando popolare perché cattura l’attenzione del lettore e il messaggio rimane in un momento in cui siamo bombardati di messaggi.

È un trend evidente anche nel giornalismo. Non c’è il rischio che il racconto delle storie abbia il risultato di banalizzare una realtà che da spiegare è più complessa? In fondo le storie sono storie, sono quelle storie, rappresentano una parte e non il tutto.
Penso a Snowfall del New York Times. La prima volta che l’ho vista sono rimasto incollato al monitor fino alla fine. Prima non avevo mai letto più di 200 parole di seguito online. Certo un prodotto del genere non va bene sempre. Non tutte le storie giustificano un lavoro di questo tipo.

Lo storytelling è un modo per disintermediare e arrivare direttamente al pubblico?
Può esserlo ogni tanto, ma il mio lavoro non è sostituire il tuo. Siamo amici. Ci sono storie che ai media non interessano, magari perché di 3 anni fa, ma per noi sono importanti da raccontare. Non è mai venuto un giornalista a dirci: questa l’avresti dovuta tenere per noi.

Oggi le informazioni arrivano per frammenti da una miriadi di fonti e canali. Qual è il risultato?
Io sono appassionato di football. Quando guardo una partita oggi ho a disposizione diverse angolature e guardo allo stesso tempo le reazioni su Twitter e Facebook. Ho una visione a 360 gradi. Il giorno dopo però voglio leggere il Guardian per avere un report da una fonte autorevole. Cerco la qualità.

Cosa ha detto agli studenti?
Che la cosa più importante per uno storyteller è la curiosità. Ieri sera tardi ho fatto un giro per il centro di Milano. Questi palazzi ricchi di storia... C’era moltissimo da raccontare.

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