L'idea di attaccare il tumore con le difese del malato, risvegliate con opportuni farmaci e strategie terapeutiche, offre diversi vantaggi rispetto alle terapie tradizionali, proprio per la sua intrinseca scarsa tossicità, e perché l'effetto, potente, dipende solo in minima parte dal tipo di tumore. I primi anticorpi sono già in clinica, e molti farmaci ai nastri di partenza. Ma, come tutte le cure, soprattutto in ambito oncologico, anche questa ha i suoi talloni d'Achille: per esempio, non tutti i pazienti rispondono, o rispondono allo stesso modo. E siccome, nel caso del cancro, dare una terapia che non funziona può rappresentare una perdita di tempo fatale, si cercano affannosamente dei marcatori di risposta, che aiutino cioè a prevedere chi è sensibile e chi no, con companion test da fare prima di iniziare le cure.
Spiega Michele Maio, direttore del reparto di immunoncologia dell'Ospedale Santa Maria alle Scotte di Siena, tra i massimi esperti della materia: «Le aziende stanno cercando marcatori in tutto il microambiente, ossia sulle cellule del sistema immunitario target dei farmaci, ma anche nella matrice extracellulare, e sulle cellule tumorali. La sfida è molto complessa, perché il microambiente è dinamico, e cambia continuamente». L'oncologo si riferisce, in particolare, a una delle ultime frontiere della ricerca: le trasformazioni epigenetiche delle cellule neoplastiche. Spiega infatti: «Le cellule malate hanno differenze non solo nella sequenza dei nucleotidi, cioè sul Dna, ma anche sui geni, che per esempio possono sviluppare delle metilazioni (aggiunte di gruppi a un atomo di carbonio). Poiché sono proprio queste trasformazioni a rendere il tumore invisibile al sistema immunitario, si cerca di agire su di esse, possibilmente di concerto all'effetto sulle cellule immunitarie, per avere il massimo dell'efficacia”. In altre parole, si cerca di rendere le cellule neoplastiche visibili, e poi di scatenare contro di esse il sistema immunitario al massimo della sua potenza di fuoco. Una strategia di attacco su due fronti, quindi, che tuttavia è possibile attuare solo se si sa esattamente se e quali trasformazioni epigenetiche ci sono in un certo tumore in un dato momento. Il che significa che c'è bisogno anche di questo tipo di marcatori, e relativi test. Allo stesso modo, si stanno cercando indicatori di efficacia per il lungo periodo, e altri nella matrice extracellulare. «La strada è obbligata, a causa dei costi» chiarisce Maio. «Le agenzie regolatorie tendono a dare sempre meno autorizzazioni ad ampio raggio, dati i costi dei farmaci e la loro estrema specificità. Il problema è mettere a punto standard internazionali e limiti di sensibilità e specificità buoni per tutti, che oggi, purtroppo, non esistono per quasi nessuna delle nuove terapie». Startup e rami di aziende più tradizionali avranno quindi di che lavorare, nei prossimi anni.
Ma c'è un altro settore che probabilmente avrà uno sviluppo oggi insospettabile: quello dei matematici e degli economisti sanitari, che probabilmente, in un futuro molto prossimo, saranno parte integrante degli organici delle aziende. Ancora Maio: «Da più parti si invocano e si propongono sistemi di pricing che tengano conto, oltreché dell'efficacia come accade oggi, anche della qualità di vita, della tossicità e dei costi per gestirla, dei ricoveri necessari e di quelli risparmiati, dell'allungamento reale della sopravvivenza (per molti dei farmaci approvati negli ultimi anni solo di qualche settimana) e così via, e con ogni probabilità saranno le stesse aziende a dover ragionare in modo diverso, se vogliono che i sistemi sanitari nazionali e le assicurazioni continuino a rimborsare le loro terapie».
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