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ripresa senza fiato

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ripresa senza fiato

  • –Riccardo Sorrentino

Cosa è davvero cambiato, dal giorno del Brexit? Per l’economia reale nulla, o quasi. Le turbolenze sui mercati hanno fatto scivolare la sterlina, e questo avrà un impatto (non necessariamente negativo), e hanno fatto bruscamente salire i rendimenti dei titoli di Stato britannici per poi riportarli ai minimi storici - il decennale è calato sotto l’1% - e quelli dei titoli di Stato di alcuni paesi di Eurolandia. Al di là di questo, null’altro è cambiato; né poteva: vale il principio di continuità e le regole Ue saranno applicate fino a quando la Gran Bretagna non uscirà davvero dall’Unione europea, tra la fine del 2018 e il 2019. Se non oltre.

Valutare le conseguenze sull’economia reale è allora molto complicato. Lanciarsi troppo in là nel futuro, immaginando un futuro di reciproco protezionismo tra Gran Bretagna e i partner (come ha fatto in parte il Tesoro di Londra prima del voto), ha poco senso. Nessun modello macroeconomico permette inoltre di valutare l’impatto della delocalizzazione di posti di lavoro nel settore dei servizi - anzi: in alcuni comparti molto specifici - da Londra ad altre piazze finanziarie. Resta allora molto poco, al di là degli effetti generati dai mercati finanziari: «Brexit sarà uno shock politico, non economico», titolava ieri una ricerca di Ben May di Oxford Economics.

Non è una sorpresa. Il Fondo monetario internazionale, nella sua analisi sugli effetti di Brexit, aveva sottolineato proprio il peso che potrebbe avere l’incertezza politica sull’andamento dell’economia. Non è un destino: ci sono paesi - il Belgio, in fondo anche la Spagna - che hanno fatto bene mentre partiti e istituzioni erano in stallo, condannati alla ordinaria amministrazione; ma in ogni caso è possibile che una situazione poco chiara sul piano politico possa spingere le aziende a rinviare gli investimenti, soprattutto quelle che intendono entrare su un nuovo mercato (e gli investimenti diretti esteri sono molto importanti per la Gran Bretagna) , e a limitare le scorte. Analogamente, i consumatori potrebbero posticipare gli acquisti di beni durevoli; mentre le quotazioni finanziarie e creditizie potrebbero veder aumentare il prezzo del rischio, e quindi, per esempio, il costo del credito.

Il rischio, per la Gran Bretagna, è elevato: nel momento in cui sarà invocato l’articolo 50, sarà attivato un timer che dopo due anni esatti chiuderà in ogni caso le trattative. Come in tutti i negoziati, il termine potrà giocare contro le due controparti, ma Londra in particolare, spiega l’Fmi, potrebbe diventare «ostaggio di considerazioni politiche interne degli altri paesi membri». Una volta fermato il timer (e in assenza di estensioni del termine), la Gran Bretagna sarà fuori.

Ogni piccolo stop alle trattative - e i negoziati sono anche una rappresentazione teatrale, come è già chiaro - potrà allora generare tensioni transitorie sui mercati, ma è già evidente cosa potrà accadere. La sterlina resterà debole, con qualche vantaggio per le esportazioni britanniche. A parte oro e petrolio (ma la bilancia energetica è in deficit), la Gran Bretagna vende all’estero soprattutto macchinari, e mezzi di trasporto in particolare automobili (costruite da case straniere...). Il 63% delle sue esportazioni è destinato all’Europa: il 9,8% alla Germania, il 7,2% all’Olanda, il 5,7% alla Francia, il 5,1% all’Irlanda e l’2,8% all’Italia. Saranno al contrario svantaggiati i paesi che esportano verso la Gran Bretagna: Germania, Olanda, Francia, Belgio e Italia. La sterlina debole rende appetibili anche gli asset finanziari, ma in questo caso molto dipende dal peso dell’incertezza: ogni accenno, ogni minaccia di ulteriore deprezzamento spaventerebbe gli investitori esteri.

L’aumento dei premi al rischio potrebbe invece colpire soprattutto alcuni paesi di Eurolandia: sono saliti gli spread dei paesi periferici - anche quello italiano - e i rendimenti dei titoli di Stato costituiscono un punto di riferimento per tutta la struttura dei tassi d’interesse. La politica monetaria ultraespansiva della Bce ed eventuali nuove iniziative della banca centrale possono evitare bruschi disallineamenti del costo del credito dai fondamentali, anche se le debolezze dei bilanci bancari - in Italia, ma non solo - vanno affrontate immediatamente per evitare che diventino una nuova fonte di incertezze.

In definitiva, le previsioni sugli effetti del Brexit non sono allora così negative. Quelle sulla Gran Bretagna sono state tutte più o meno alterate dallo scopo di orientare l’elettorato e andranno riviste. Per l’Unione europea (senza la Gran Bretagna) il Fondo monetario ha intanto previsto per il 2018 un impatto compreso tra 0,2 e 0,5 punti percentuali, per il mondo nel suo complesso tra zero e 0,2 punti percentuali. In assenza ovviamente di nuove iniziative correttive di politica economica. La maggior parte degli analisti privati non si discosta molto da queste indicazioni.

Cosa accadrà dopo il 2018, dipenderà invece dal tipo di integrazione commerciale che la Gran Bretagna riuscirà a ottenere dall’Unione europea, che appare come il partner con maggior potere contrattuale, desideroso oltretutto di non creare alcun incentivo ad altri paesi, ma neanche di creare danni per le proprie aziende produttive con sede nel Regno Unito. Non ci sarà un accordo punitivo, protezionistico, e i danni per Londra, come per l’Unione monetaria, non dovrebbero essere eccessivi.

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