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ALLA SCUOLA DELLE CRISI

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ALLA SCUOLA DELLE CRISI

  • –Maximilian Cellino

Dieci giorni dopo, i danni provocati sui mercati finanziari dall’indubbio terremoto Brexit sembrano tutto sommato più limitati di quanto non facessero temere le stime tracciate nell’immediato. Niente di paragonabile alla crisi finanziaria avviata nel 2007 dai mutui subprime, quelli concessi dalle banche Usa con manica larga ai clienti meno solidi, e culminata l’anno successivo con il fallimento di Lehman Brothers, né alla bufera che ha rischiato di travolgere il debito pubblico europeo, e in particolare quello italiano, quattro anni più tardi.

Non è certo il caso di sbilanciarsi in diagnosi premature, specie quando il futuro dei rapporti fra Gran Bretagna e Unione europea, e persino l’invocazione stessa dell’articolo 50 attraverso il quale si dovrebbe sancire l’uscita della prima dalla seconda, restano avvolti nell’incertezza. Il confronto con gli altri due momenti di frattura attraversati dal mondo dell’economia e della finanza negli ultimi 10 anni può però essere d’aiuto a capire da una parte il motivo per cui molto probabilmente quella scatenata dal referendum britannico non passerà alla storia come la «crisi del secolo» e a individuare dall’altra gli elementi di maggior criticità che tuttora restano a galla. E guardando con gli occhi di un investitore, a isolare i rischi dalle opportunità.

Gran parte degli analisti fa notare come rispetto al 2007-2008 le conseguenze siano sì potenzialmente globali, ma di portata decisamente più modesta. In fondo l’epicentro del sisma sono il Regno Unito e l’Europa, non gli Stati Uniti come otto anni fa, e anche le stime sull’impatto non sono paragonabili: S&P teme un rallentamento dello 0,8% per il Vecchio Continente nei prossimi due anni , mentre la recessione susseguente al crack Lehman fu decisamente più profonda. E sul 2011-2012 non si può inoltre fare a meno di notare come la magnitudo fosse ben differente per il nostro Paese, la sua sostenibilità finanziaria e perfino le sue istituzioni.

Pur cogliendo di sorpresa l’intera comunità finanziaria, il referendum britannico ha inoltre trovato le Banche centrali con le armi pronte ad affrontare l’emergenza: i meccanismi straordinari creati o soltanto ideati dopo la crisi finanziaria e messi a punto con la tempesta sul debito sono rimasti ovviamente attivi anche quando è spuntato il «cigno nero» Brexit; in diversi casi è stata sufficiente l’idea che gli istituti centrali potessero intervenire per funzionare da deterrente nei confronti di chi sui mercati voleva prendere decisioni a senso unico.

L’assestamento dopo la prima seduta e il tentativo di rimbalzo nei giorni successivi è in gran parte legato ad attese di nuove misure espansive da parte della Bce, oppure a una Federal Reserve americana che toglie il piede sull’acceleratore dei tassi. Ma tutto questo potrebbe anche rivelarsi paradossalmente un boomerang, perché se il mercato si tranquillizza le banche hanno anche minore necessità di intervenire a sostegno. E sempre ragionando sulle banche centrali, non si può fare a meno di notare come rispetto a qualche anno fa le loro munizioni siano ormai in via di esaurimento, mentre se si restringe il confronto alla sola crisi del debito è evidente che questa sia avvenuta in un contesto di crescita globale che oggi è invece messa sempre più in dubbio anche dal rallentamento della Cina.

«Nel 2011-2012 si poteva contare sul traino dei mercati emergenti e della crescita degli investimenti dei fondi sovrani», sottolinea Luca Vari di Jci Capital, che per fotografare la situazione attuale utilizza il paragone delle vetture di Formula Uno: «Dei due motori che tanto hanno contribuito alla risoluzione delle due crisi dell’ultimo decennio, quello a scoppio degli emergenti si è ingrippato, mentre quello elettrico delle banche centrali che fornisce potenza aggiuntiva è sempre più scarico».

L’altro grande rischio presente è strettamente legato alla politica, che pure potrebbe sfruttare l’incidente Brexit come opportunità per accelerare sulle riforme tanto attese. «Rispetto alle crisi precedenti - spiega Daniele Antonucci di Morgan Stanley - le principali forze politiche hanno minor sostegno nei parlamenti e in generale fra la popolazione: questo rende più difficili le riforme strutturali e crea maggior incertezza, influenzando negativamente l’economia e penalizzando gli investimenti più rischiosi». In altre parole, anche se le banche centrali riuscissero a tamponare l’emergenza immediata, l’incertezza politica strutturale rischia secondo Antonucci di «provocare crisi più ampie e per un periodo più lungo».

Sul fronte opportunità, invece, «la situazione attuale può portare alcuni vantaggi legati, per esempio, alla debolezza dell’euro e allo spostamento in altre sedi europee di alcune attività o sedi europee oggi dislocate a Londra», spiega Paolo Balice, presidente Aiaf. È poi ovvio che l’arretramento dei mercati ha reso meno care certe attività, creando potenziali occasioni di acquisto da verificare però con cautela come nel caso (evidente) delle banche italiane. «È chiaro - aggiunge Balice - che trovare una soluzione per il sistema potrebbe trasformare in opportunità anche alcune emissioni obbligazionarie finanziarie, oggi penalizzate dal mercato, anche se il tema più ampio riguarda i depositanti “tranquilli” che non cercano rendimenti speculativi ma vogliono continuare a fidarsi della propria banca». La messa in sicurezza del sistema bancario italiano (e di conseguenza dei risparmi delle nostre famiglie) sarebbe senza dubbio la principale svolta che potrebbe portare in dote la Brexit.

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