In principio era l'hashtag, il “cancelletto” nato per fare da raccordo tematico tra milioni di conversazioni sui social network. Nato, appunto, perché con gli anni il simbolo è finito praticamente ovunque e quasi mai con la sua funzione originaria. Incluse le pubblicità aziendali e i tentativi, non sempre felici, di cavalcare le piattaforme online con un linguaggio adattato alle circostanze. La questione cambia se sono le aziende a bersagliare i social, come nel caso di Ikea e del suo spot che ironizza sull'era di Instagram e della ansia da like, l'ossessione di condividere immagini per una gratificazione fatta dai clic degli utenti.
La trama è semplice, ma efficace: in una residenza della Francia settecentesca, una bambina di casa deve trattenersi dall'addentare una mela perché il padre vuole che l'intera tavolata sia raffigurata da un pittore e fatta viaggiare per l'intero paese anche a costo di entrare in camere da letto, interrompere duelli ed esporsi al giudizio (per fortuna positivo) delle folle in piazza. Qualche secolo dopo, le comunicazioni sono più facili ma il concetto è identico: nello spot, un padre ritarda il momento della cena perché impegnato a fotografare il piatto, sotto lo sguardo sconsolato della figlia. A dire tutto è lo slogan finale: let's relax, rilassatevi. Che, oggi, equivale soprattutto a spegnere il cellulare e concentrarsi su quello che si sta facendo (o comprando, visto che si tratta pur sempre di uno spot).
Da Ikea alla Ceres, la sfida ai (e sui) social
Ikea non è la prima azienda di grandi dimensioni a colpire nel vivo i social, direttamente o indirettamente, per sfruttare l'effetto di una pubblicità ironica e rivendicare tra le righe i valori old economy del suo prodotto. Guinness, lo storico marchio di birra stout irlandese, ha giocato su un «uso responsabile» delle sue pinte con un invito abbastanza chiaro: via gli smartphone quando si è al pub, con una foto che immortala una pila di dispositivi spenti sul bancone del bar. Coca Cola si era spinta oltre nel 2014, con uno spot per il lancio di un (finto) sistema di protezione dalla dipendenza da social media: il «social media guard», una specie di collare – ovviamente venato di rosso e bianco, i colori dell'azienda – che dovrebbe tutelare dall'isolamento indotto da video e post sui social.
L'invito è a riprendersi la vita, «quella cosa che succede quando si scarica la batteria al cellulare»: in una delle scene finali, gli occhi di due bambine si spostano dai gatti immortalati da video sugli smartphone al gatto in carne ed ossa che sta passeggiando di fronte a loro. Su un altro livello, ma sempre via social, il real time marketing di Ceres: il marketing ispirato ai fatti del momento che fa spopolare i post via Twitter o Facebook della birra danese. Le stilettate dei social media editor non hanno risparmiato nessuno, dai messaggi diretti al segretario della Lega Nord Matteo Salvini per rimandare «al loro paese» i Pokemon («@matteosalvinimi, se riusciamo a rimandarli al loro paese ci offri una birra? #PokemonGo #PokemonGoHome ») ai tweet rivolti senza troppe formalità a Papa Francesco, Maurizio Gasparri e Virginia Raggi. A volte, però, le vittime sono gli stessi social: è di inizio agosto un post dove lo staff fa notare a un certo Jack che «comunque è meglio Facebook», con tanto di foto riportante la frase testuale su una pagina del social di Mark Zuckerberg. “Jack” è Jack Dorsey, classe 1976, il fondatore di Twitter che vanta un patrimonio netto di 1,14 miliardi di dollari.
Quando la “vittima” sono le tecnologie
Non che i social siano l'unico bersaglio. Alcuni spot fanno un passo prima, o in più, punzecchiando la dipendenza da tecnologie o la frenesia di vite monopolizzate da email e reputazione online. Il Wwf ha promosso un tema che gli è familiare, la preservazione dell'ambiente, per far suo lo slogan «Iamnature», io sono natura: nel video, una coppia nuota in un lago di montagna, immergendosi tra l'acqua e le foglie prima di ritrovarsi nella “gabbia” del proprio ufficio e della propria routine aziendale.
E per tornare proprio alle aziende c'è il caso di Durex, il marchio di profilattici che ha saputo fare suo un uso creativo e (molto) ironico delle sue pubblicità. L'ultimo esempio è una campagna dal titolo emblematico: «Less smartphone, more pleasure», meno cellulari e più piacere. Il motto finale? Naturalmente, un hashtag: #donotdisturb, non disturbare.
© Riproduzione riservata