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«La gig economy rispetti le regole, giusto che lo Stato intervenga»

John Hughes, presidente di Just Eat
John Hughes, presidente di Just Eat

«Dobbiamo solo comportarci da buoni cittadini: pagare le tasse e trattare equamente i lavoratori. È giusto che ci sia un minimo sindacale». Sarebbero ovvietà, se a dirle non fosse John Hughes: il presidente di Just Eat, il colosso delle consegne di cibo da 247,6 milioni di sterline di fatturato e 96 milioni di ordinazioni su scala globale. Nel pieno del caso Foodora, la protesta contro i pagamenti previsti per i fattorini del servizio (2,7 euro a consegna), il chairman spiega al Sole 24 Ore cosa intravede nel futuro della cosiddetta delivery. Il nodo principale? Mantenere il ritmo di crescita della gig economy, l’economia dei piccoli lavori, senza violare i diritti dei pony express coinvolti nel servizio. Una categoria che si fa fatica a inquadrare secondo i vecchi schemi contrattuali, emersa ora grazie allo sciopero dei “rider” di Foodora dello scorso ottobre tra Torino e Milano. «Io non penso che questa nozione di new economy possa essere intesa come “siamo globali e quindi non ci sono regole” - dice Hughes – Lo Stato può intervenire ed è giusto che intervenga». Il problema è districarsi tra i mercati nel raggio d’azione del marchio, costruiti su regole e vincoli sindacali diversi. Oggi Just Eat opera in 15 paesi e ha affiliato al suo network 64mila ristoranti (4.800 solo in Italia). Hughes non sembra spaventato dall’ipotesi di un aggiustamento caso per caso, anche se inciderebbe sui costi del lavoro. Just Eat ha registrato 23 milioni di sterline di utili nel 2015 su un margine operativo lordo di 59,7 milioni. Non è facile prevedere l’impatto di un incremento (o una regolazione complessiva) degli stipendi. «Il problema è proprio continuare a far funzionare il nostro modello e pagare, in contemporanea, un salario appropriato alle persone – spiega Hughes - Come? Aumentando la qualità del servizio e confrontandoci con i vari competitor». Dopo anni sulla piazza e una Ipo miliardaria a Londra, il modello di business di Just Eat è ancora essenziale: la società trattiene una commissione che va dal 15% al 25% sugli ordini ricevuti dai ristoranti. In cambio, secondo le stime fornite dalla società, i locali godono di un incremento medio del fatturato del 20-21% entro cinque mesi. Il rinnovamento passa per «pesanti investimenti» annunciati da Hughes in termini di acquisizioni di ristoranti e consumatori, oltre a una spinta in più sulla componente tecnologica. La società investe circa il 10% dei suoi ricavi annui in attività di R&D. «Dobbiamo essere paranoici sull’innovazione. Uno, dobbiamo rendere le nostre app sempre più facili da usare e friendly. Secondo, far entrare l’It nei ristoranti con soluzioni come Orderpad (il tablet per le ordinazioni, ndr» dice Hughes. C’è chi si è spinto più in là e ha parlato di consegne via droni, sulla falsa riga di Amazon Prime Air: il progetto di servizi con veicoli aerei ideato dal colosso di Jeff Bezos. Hughes sembra scettico: «Per una grande città ti servirebbe una flotta di 10mila droni. Non mi sembra ancora possibile». Un'altra via di sviluppo arriva dall’incorporazione di startup promettenti, come nel discusso caso di PizzaBo. Oggi il servizio è stato diluito in Just Eat, con uno strascico di polemiche sul trasferimento dei lavoratori da Bologna e Milano. Daniele Contini, country manager di Just Eat Italia, non nasconde la motivazione di fondo: «Abbiamo pensato che sarebbe stato difficile tenere due progetti e abbiamo deciso di fare sinergia. Con un’unica piattaforma».

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