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Artifici intelligenti per affari artificiali: le promesse dell’intelligenza artificiale

(Reuters)
(Reuters)

Sull’intelligenza artificiale bisogna essere ragionevoli. Sedersi composti e non farsi prendere troppo dall’agitazione. Negli ultimi cinque anni, i colossi corporate internazionali hanno dato il via a una corsa all’acquisizione di imprese innovative dell’Ai (artificial intelligence) senza precedenti. Nella storia della tecnologia solo i Big Data hanno generato più clamore. Per essere più precisi, la società di ricerca statunitense Cb Insights ha contato un totale di 200 operazioni di M&A dal 2012 ad oggi, con un’impennata di 34 acquisizioni solo nel primo trimestre del 2017. Il capitale di rischio internazionale, i venture capital hanno scommesso sulle startup più di 5 miliardi di dollari. In pratica non c’è giorno in cui non si abbiano rumors di operazioni di investimenti per aziende con l’”Ia” nell’oggetto sociale. In cima a tutti si fanno notare i grandi brand tecnologici della Silicon Valley, ma anche la “vecchia” industria si muove alla velocità della luce.

«C’è indubbiamente grande eccitazione - osserva Rob Fergus, docente di scienze informatiche dell’università di New York alla guida della ricerca sull’intelligenza artificiale per Facebook a New York - soprattutto sui mercati finanziari. Ed è curioso perché, tecnicamente, quella dell’Ai è una riscoperta. Le reti neurali si studiano dagli anni Settanta». Come dire, l’Ia è un reboot molto fortunato.

Lo scienziato, che domani parteciperà come ospite alla XV edizione di BergamoScienza, in programma fino al 15 ottobre, spiega che in realtà a essere cambiata è la disponibilità di potenza di calcolo e le grandi moli di dati su cui affinare gli algoritmi. È cambiato l’accesso ai Big data, quindi, a database globali di informazioni che però non tutti possiedono come anche le risorse per questo tipo di studi. A certi livelli, va detto, l’intelligenza artificiale non è un business per tutti.

Facciamo un esempio: il Google Brain Team che da quando è nato si concentra sul deep learning, e quindi su algoritmi di apprendimento, ha dichiarato di avere impiegato 18 milioni di ore Cpu (processore) per uno studio presentato alla Conference on Learning Representations (Iclr) di quest’anno. Ottocento Gpu (acceleratore) sono state usate per un altro paper scientifico. Se calcoliamo che il costo di un’ora su una piattaforma cloud dedicata all’Ia è di 0,70 centesimi di dollaro possiamo misurare il valore di questi studi nell’ordine dei milioni di dollari. «Naturalmente non vale per tutti i paper o per tutti i business plan delle startup. Dipende anche dalle ambizioni dello studio scientifico. Ma - osserva Fergus - chi ha dati e potenza di calcolo parte favorito».

Chi possiede queste caratteristiche sono proprio le grandi piattaforme del web e i big dell’hi-tech. Se infatti proviamo a capire chi sta facendo incetta di startup troviamo i soliti noti. Google svetta nella rilevazione di Cb Insights con 11 acquisizioni, a partire dai 600 milioni di dollari messi sul piatto nel 2014 per la britannica Deep Mind Technologies (oggi Google DeepMind). Seguono Apple (8 operazioni in totale, l’ultima per accaparrarsi Regaind, startup attiva nella computer vision), Facebook e Intel.

La campagna acquisti prosegue anche nei dipartimenti universitari. Paysa, una piattaforma che monitora il mercato del lavoro negli Usa, ha calcolato che le prime venti aziende interessate all’Ia hanno assunto scienziati ed esperti investendo in stipendi un totale di 650 milioni di dollari. Rob Fergus è uno degli acquisti pregiati. «A Facebook lavoriamo su prototipi di progetti scientifici legati alle dinamiche della comunicazione. Non lavoriamo per un servizio specifico, credo che Amazon e Apple siano più concentrate sui prodotti».

Proprio il gigante di Jeff Bezos si conferma l’attore più vorace. Per 1.178 posizioni nell’Ia avrebbe messo sul piatto in termini di stipendi qualcosa come 227,8 milioni di dollari. Ma non c’è bisogno di andare a Seattle per sentire puzza di bolla. Nei dipartimenti italiani dell’università già da alcuni mesi c’è chi esprime sottovoce incredulità per una campagna acquisti di ricercatori pagati a peso d’oro per svolgere ricerche non lontane da quelle negli atenei. Il dubbio, insomma, è che si stiano alimentando promesse più legate alla speculazioni finanziarie che alle applicazioni reali dell’Ia.

«È vero che l’intelligenza artificiale che vediamo non è sempre apprendimento automatico. Ma è già molto presente negli oggetti che ci circondano», osserva Pier Luca Lanzi, docente di ingegneria Informatica al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano. «Tenete conto - aggiunge - che poche settimane fa Apple ha presentato un chip (SoC A11 Bionic ndr.) studiato per lavorare con le reti neurali. L’apprendimento automatico è già per certi versi una realtà commerciale». Il problema per Lanzi che terrà a Bergamo un incontro su intelligenza artificiale e videogiochi, non è tanto quella di raffreddare le promesse ma di adattarne le potenzialità all’uso che ne vogliamo fare. L’intelligenza artificiale per funzionare deve essere verosimile. «Il fantasmino di Pacman, per fare un esempio, deve farsi catturare altrimenti nessuno continuerà a giocare. Nei servizi l’Ia non potrà essere migliore ma adattarsi a noi, solo così sarà più credibile».

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