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Dossier Dalla diagnosi alle cure il robot pensa alla salute

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    Dossier | N. 21 articoliBusiness e Tecnologia

    Dalla diagnosi alle cure il robot pensa alla salute

    Bastano un dollaro e pochi millisecondi per sapere se nelle immagini di una tua Tac si nasconde il sintomo di una malattia. Sembra una promessa, ma è già realtà grazie agli algoritmi di Zebra Medical Vision, la startup israeliana guidata da Eyal Gura che pochi giorni fa ha stretto un accordo con Google per offrire la sua tecnologia di intelligenza artificiale (IA) agli ospedali di tutto il mondo. Gura e colleghi hanno dimostrato che i loro sistemi di deep learning che permettono alle macchine di imparare da sole semplicemente dandogli in pasto milioni di immagini, sono non solo molto più veloci, ma anche più accurati degli specialisti in carne ossa e camice. E, soprattutto, infinitamente più economici.

    La multinazionale di Mountainview punta da tempo sul settore sanitario per diversificare i suoi profitti (per l’85% ancora prodotti dalle ricerche online) ed è in buona compagnia viste le proiezioni come quelle degli analisti di Frost&Sullivan, che stimano una crescita esplosiva (+40%) del rendimento degli investimenti in IA per la sanità entro il 2021. L’applicazione di queste tecnologie all’healtcare promette infatti di rivoluzionare non solo il mercato, ma anche la sostenibilità della medicina di alto livello. Lo statunitense Healthcare Data Institute stima, infatti, che almeno l’80% dei dati sanitari prodotti oggi non sono esaminabili dagli attuali sistemi digitali perchè non adeguatamente strutturati.

    Questa è una miniera di conoscenza per i computer e data scientist che oggi hanno a disposizione sistemi in grado di individuare ricorrenze e analogie sia in immagini che in grande masse di informazioni non organizzate. Dall’anno scorso DeepMind, l’ex-startup di Cambridge divenuta nel 2014 la punta di diamante di Google per la ricerca sull’IA, collabora infatti con il sistema sanitario britannico per setacciare le cartelle di 1,6 milioni di pazienti che volontariamente hanno dato accesso ai propri dati. Lo scopo è scovare segnali precoci di malattie ancora non diagnosticate che spaziano dalla cecità ai tumori. In questo campo, uno dei competitor più importanti è Ibm, che con il suo programma Watson for health, sta applicando le tecnologie cognitive per aiutare le organizzazioni sanitarie, sia pubbliche sia private, a estrarre senso dai big data già in loro possesso non solo per fare diagnosi più accurate ma anche per elaborare piano di prevenzioni. Uno dei vantaggi maggiori del supercervellone Watson è proprio la sua capacità di esaminare una diversità di flussi di dati, dalle cartelle cliniche, ai paper di ricerca e casi di studio senza dover stoccare tutti i dati e senza i bias inevitabili per un esperto umano, ma estraendone il senso per ridurre al minimo gli errori di diagnosi.

    L’IA in camice non è però un’esclusiva occidentale come dimostra il lancio, lo scorso marzo da parte di Alibaba di ET Medical Brain, una suite di strumenti pensata per aiutare la diagnostica medica ma anche nel trattamento dei pazienti e nella ricerca medica. La divisione Health del colosso cinese ha recentemente rilasciato anche Doctor You, un assistente per la diagnosi oncologica per far fronte al bassissimo numero di medici del Regno di Mezzo. Nonostante siano uno dei popoli più grandi del mondo, i cinesi possono infatti contare su appena 1,49 medici per mille abitanti, uno in meno degli americani (2,55) e meno della metà degli italiani (3,9). Anche il governo giapponese ha avviato partnership pubblico-privata per l’applicazione di questi strumenti nella ricerca farmaceutica con lo scopo di aumentare la competitività della propria ricerca farmacologica. «Le applicazioni dell’IA interessano tutte le branche del mondo sanitario, dalla ricerca all’amministrazione, ma credo che le più importanti siano quelle terapeutico-riabilitative» osserva Simone Ungaro, cofondatore e Ceo di Movendo Technologies, la spin-off dell’Iit di Genova oggi controllata dal Gruppo Dompé (50%) il cui robot riabilitativo Hunova, tra pochi giorni alla fiera di Dusseldorf, ha appena ottenuto la certificazione dell’Fda statunitense. Hunova, che costa circa 100mila euro, è già utilizzato in 10 centri in Europa e 20 Italia. Il suo punto di forza è l’integrazione di meccatronica, elettronica e sensoristica con un sistema di IA in grado di modulare 170 diversi esercizi in base al paziente (che si tratti di uno sportivo professionista o di un ottuagenario), coprendo oltre l’80% della riabilitazione, dalla caviglia al ginocchio all’anca, ma soprattutto bacino e tronco, sistema vestibolare e sistema cognitivo con applicazioni che spaziano dall’ortopedia a neurologia, geriatria e sportiva. «Il grande cambiamento introdotto dall’IA nell’healthcare è la possibilità di generare dati prima inesistenti sul reale recupero del paziente - sottolinea Ungaro –. Ciò permette di immaginare prestazioni compensate in base alla loro efficacia ma anche una prevenzione basata sulla predizione dei problemi che potrò avere e quindi su strategie molto più mirate».

    La sfida più difficile per l’IA sembra però essere la sua accettabilità sociale. Un’indagine YouGov commissionata da Pwc alla fine del 2016 su 12mila persone in 12 paesi Emea (Europa ma non l’Italia, Medio Oriente e Africa), ha mostrato che i cittadini sono sempre più disponibili ad affidarsi a robotica e IA se ciò significa un migliore accesso alle cure e sono estremamente attenti alla velocità e alla qualità nel valutare questi nuovi trattamenti, ma che la “componente umana” del rapporto con il personale medico rimane irrinunciabile.

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