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Videogiochi, di cosa parliamo quando parliamo di dipendenza

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Videogiochi, di cosa parliamo quando parliamo di dipendenza

“La dipendenza dai videogiochi è una malattia”. Questo il tenore dei titoli che ha accompagnato la notizia dell’inserimento del Gaming disorder, la dipendenza da videogiochi, nella 'lista delle malattie' dell’OMS. Che vuol dire? Che improvvisamente una ricerca ha dato risultati sensazionali? Che c’è una 'cura' anche per questa patologia? Che la comunità scientifica è finalmente concorde su questo tema? Niente di tutto questo. Vale la pena chiarire alcune questioni e andare al di là del titolone a effetto, che come unico risultato vede una madre esasperata dire al figlio incollato ai videogames: «Lo vedi? Te l’avevo detto che ti ammalavi!».

La dipendenza da videogiochi è oggetto di studio da oltre 20 anni, da quando cioè i videogames sono esplosi, diventando il fenomeno di massa che sono oggi. Centinaia di studi si sono concentrati su quello che (insieme al tema della violenza) sembra essere uno degli aspetti più controversi per i videogiocatori. Nonostante ciò, non è ancora chiaro se possa essere descritta come una patologia a sé stante e se necessiti trattamenti differenziati rispetto alle altre dipendenze comportamentali.

Ma quindi l’inserimento della dipendenza dai videogiochi da parte dell’Oms in questa famosa “lista delle malattie” certifica qualcosa? La risposta è no. O meglio, sarebbe stato strano che nel manuale non se ne facesse cenno: l’ultima revisione dell’ICD (International Classification of Diseases) risale al 1990, nel 2018 sarà pubblicata l’undicesima versione (ICD-11) in cui ovviamente ci saranno tutti gli aggiornamenti relativi agli ultimi 30 anni, tra cui anche la dipendenza da videogiochi che certo negli anni 90 del secolo scorso non era un tema.L’inserimento, comunque, ha destato parecchie perplessità perché la comunità scientifica non è concorde né sulla definizione di dipendenza da videogiochi, né sulle caratteristiche e né sulle terapie necessarie. Nell’altro manuale per la definizione dei disturbi mentali globalmente condiviso, il DSM-V (il manuale diagnostico psichiatrico), è stato inserito l’Internet Gaming Disorder tra le materie che hanno bisogno di essere approfondite e in cui gli studi allo stato attuale non sono esaustivi, perché non si è trovato il consenso necessario per inserirlo tra le patologie.

La dipendenza dai videogiochi esiste, come esistono molte altre dipendenze comportamentali. Ciò non significa che necessariamente ognuna necessiti di una diagnosi specifica o di un trattamento medico-psichiatrico apposito (pensiamo per esempio alla dipendenza da social network o quella da relazioni virtuali), che non sia quello dedicato alle dipendenze comportamentali in generale.

Va tenuto presente d’altro canto che l’inserimento in un manuale diagnostico comporta una serie di conseguenze: per esempio, come hanno sottolineato 28 ricercatori in un “open debate paper” su questo tema, potrebbe portare a una prematura applicazioni di diagnosi nella comunità medica e il trattamento di casi che sono falsi positivi, specialmente per bambini e adolescenti. Il rischio, nel caso dei videogiochi, è quello di confondere casi effettivi di dipendenza con situazioni in cui il gioco particolarmente assiduo non corrisponde alla patologia, ma a qualcosa di diverso, legato ad essa o del tutto indipendente. Già Richard Wood nel 2007 aveva presentato alcuni casi di errore diagnostico. In uno di questi, per esempio, un bambino di 11 anni viene portato in terapia dai genitori, preoccupati per la sua compulsione nel gioco online World of Warcraft, per la sua mancanza di interesse nelle attività scolastiche e per le sue reazioni violente alle minacce di toglierli il gioco. I genitori temono quindi un caso di dipendenza dal gioco. Dai colloqui con il terapeuta, però, emerge che il bambino non ha molti amici, che a scuola ha subito atti di bullismo e che il gioco consiste nel suo unico intrattenimento oltre che, essendo un gioco online, nella sua attuale fonte privilegiata di relazioni. Di fatto, in questo caso, il gioco rappresenterebbe una risorsa e una reazione a un malessere di altro tipo, non la sua causa. Insomma, come tutto ciò che riguarda la salute mentale, va considerata la persona nel complesso delle sue relazioni, della sua vita sociale, dei suoi bisogni e dei suoi vissuti. Serve cautela, dunque, nel parlare di diagnosi e di patologia, anche perché vale la pena ricordare che c’è anche chi ritiene che l’inserimento nell’ICD possa essere il frutto della pressione di Paesi asiatici come la Corea del Sud, esito quindi di pressioni politiche più che di evidenze scientifiche.

Se usciamo però dalle strette maglie della ricerca di una diagnosi esatta che possa definire il comportamento problematico come dipendenza, troviamo una vasta gamma di studi che mostra gli effetti negativi dell’utilizzo eccessivo dei videogiochi a livello psicosociale e medico. Che sia o meno classificabile come dipendenza, se l’utilizzo dei videogiochi (o qualsiasi altro comportamento) si associa a elementi quali una maggiore trascuratezza del proprio lavoro e dei propri hobby e della vita sociale, a una netta riduzione del tempo dedicato al partner o alla famiglia e al sonno, a un aumento del livello di stress o di ansia, alla diminuzione del benessere psicosociale e solitudine, ad abilità sociali più povere, al peggioramento dei risultati scolastici e accademici, a un calo generalizzato dell’attenzione, c’è un problema da affrontare. Si tratta, nel caso degli esempi appena citati, di tutte conseguenze psicosociali correlate all’utilizzo eccessivo dei videogiochi (che, attenzione, non significa dipendenza). Se poi l’utilizzo eccessivo dei videogiochi (o di Internet, o dei social network…) sia la causa o l’effetto è la domanda chiave a cui la ricerca è chiamata, seriamente, a rispondere.

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