La fantascienza nei videogiochi ha sempre qualcosa di familiare e accomodante. Se non ce l’ha non funziona. Frammenti di Blade Runner, scorci di Alien, prospettive da Battlestar Galactica: il futuro e il modo in cui lo immaginiamo non è più quello di una volta. Non si inventa, al massimo si esplora e si rivive all’infinito. Come un eterno reboot.
Nella pancia di chi (video)gioca qualcosa di fortissimo deve per forza avere risuonato giocando a Detroit: Become Human, l’ultima opera di David Cage. Quella raccontata dal più cinematografico tra i game designer contemporanei è una distopia fantascientifica ambientata nel 2038. Siamo a Detroit, la MoTown, la città dell’automobile, il luogo dove la rivoluzione industriale di Henry Ford, affonda le sue radici.
Il vostro nome è Markus, un giovane afroamericano sulla trentina. Nella prima di una delle tre storie che compongono la narrazione videoludica di Become Human siamo l’assistente di un ricco pittore, che ci ha adottato e istruito. Siamo diversi da lui perché il nostro vero nome è RK200. Fuori dal negozio in fila, rigide, con gli occhi spenti uomini e donne sintetici aspettano di essere affittati.
Apparentemente è la solita storia di androidi. La società Cyberlife ha introdotto sul mercato macchine senzienti che con il passare del tempo hanno sostituito gli umani in numerosi ambienti lavorativi. Qualcosa va storto. Markus prende coscienza. E non solo lui.
Le tre storie nella mente del fondatore di Quantic Dream diventano pretesti per praticare le scelte di chi è considerato diverso. Come è accaduto in titoli come HeavyRain e Beyond: Two Souls le nostre decisioni condizioneranno profondamente lo svolgersi della storia, attraverso un elaborato sistema di possibilità alternative che non ha precedenti in quello che si presenta a tutti gli effetti come un racconto interativo.
Dentro questo videogioco si agitano le suggestioni di Isaac Asimov. Nell’antologia Io, Robot che contiene la prima storia sui robot positronici (Robbie) e le sue famose «Tre leggi della Robotica» c’è tutta la reazione dello scrittore russo alla retorica del robot come minaccia, nemico dell’uomo e della società naturale. Novant’anni dopo la pubblicazione di questa opera David Cage ritorna in quell’immaginario che nel frattempo ha trovato nell’intelligenza artificiale e nella robotica una propria modernità.
Il suo tocco è però lontano da quello di Asimov. Gli androidi smettono di essere strumenti a disposizione dell’umanità nel suo percorso verso l’infinito miglioramento. La visione positivista della robotica viene superata a destra dal nuovo paradigma dell’intelligenza artificiale che ruba posti di lavoro, che ci emargina consegnandoci alle nostre debolezze e meschinità. Ecco perché la sua opera più completa e matura è di fatto la più politica. Dove i temi della segregazione razziale e rivolta civile muovono le trame delle vite degli androidi come un destino ineluttabile. Ma come ha ripetuto lo stesso David Cage la prospettiva è un’altra. E si riallaccia al saggio di Raymond Kurzweil sulla singularity. Siamo a quel punto del futuro in cui gli avanzamenti tecnologici cominciano ad avvenire con tale rapidità, che gli esseri umani non riescono a tenere il passo. Tutto ciò ha un effetto profondo sulla società umana e sulla vita di tutti i giorni, e segna la fine della storia umana così come la conosciamo. Ecco perché quella di Detroit Become Human resta di fatto una storia normale, per quanto possa essere normale una storia di androidi. Una versione edulcorata e più politica di BladeRunner. Che risuona oggi più familiare e attuale che mai.
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