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I Ceo in Italia non capiscono l’intelligenza artificiale?…

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I Ceo in Italia non capiscono l’intelligenza artificiale? L’Università apre le porte alle imprese

Prima dovevi avere a tutti i costi la Business intelligence, poi è arrivato il Cloud computing, a ruota i Big data e ora l'Artificial intelligence. Le sirene del marketing tecnologico funzionano per parole chiave, suonano non sempre chiarissime e quasi sempre un imperativo strategico e fondamentale per il futoro delle imprese. Se chiedete a imprenditori, ai manager a chi insomma gestisce il business di una grande azienda il tono non è mai così assertivo. Anzi: Sap con The European House–Ambrosetti ha interrogato oltre 500 grandi aziende, sia italiane sia multinazionali operanti in Italia. Ebbene, su un “must” come l'intelligenza artificiale la risposta delle imprese italiane è stata in parte davvero tiepidina. Vero è che, anche per educazione, quasi 4 su 5 (il 77% degli intervistati) ritengono l'Ai un fattore importante o molto importante per il proprio business. Ma quasi la metà il 51,2% dei business leader afferma che all'interno della propria azienda non c'è ancora chiarezza su cosa sia concretamente l'intelligenza artificiale. Come dire, siamo convinti che sarà fondamentale ed essenziale ma al nostro interno nessuno ci ha capito qualche cosa o meglio sa dove mettere le mani.

«Una prima evidenza infatti - si legge nel report - è che sarà quindi necessario un approccio “top-down” in cui il Ceo avrà un ruolo guida nella promozione del cambiamento dal punto vista culturale, strategico e organizzativo». Per dirla in modo più diretto con i numeri dello studio solo un terzo (il 33%) dei Ceo ritiene di essere interessato da un cambiamento sostanziale: emerge quindi la percezione di una netta separazione tra la dimensione strategica e quella operativo-gestionale, con i capi d'azienda che tenderebbero a “delegare” la gestione degli aspetti legati allo sviluppo del'IA ai responsabili delle aree di Innovazione e Tecnologia, il che in termini di digital trasformation fa molto anni Ottanta.

Servirebbe, sopratutto per le più piccole e meno corazzate aziende italiane una guida alla comprensione del valore industriale dell'Ai. Alla finestra ci sono le grandi piattaforme digitali: Facebook, Google, Ibm, Amazon, Microsoft, Alibaba, Baidu che con specializzazioni e intenti diversi tra loro hanno quello che è il petrolio dell'era dei Big data, ovvero i dati. E quindi la possibilità di affinare algoritmi dell'intelligenza artificiale. Un ruolo dovrebbe averlo l'Università italiana. E una settimana fa in modo inaspettato visto il passato litigioso degli atenei italiani è nato a Roma all'Università Sapienza,il nuovo Laboratorio Nazionale di Intelligenza Artificiale e Sistemi Intelligenti coordinato dal Consorzio Interuniversitario Nazionale per l'Informatica (Cini). Alla guida Rita Cucchiara, docente dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, che è riuscita nella missione impossibile di mettere insieme e “a terra” 43 università e tre centi di ricerca.

«Diciamo subito che è vero: non solo l'Italia ma anche l'Europa parte svantaggiata rispetto a questi colossi dei Big Data. Ma ci sono due novità che rendono la partita ancora aperta. La prima è che molti dei grandi database pubblici sono aperti, parliamo di ImageNet e del framework Coco di Microsoft. L'università quando lavora con Facebook sviluppa soluzioni di Ai su dati pubblici, poi loro decidono se mettere in produzione e se sviluppare l’applicazione ma lo studio è condiviso.

In secondo luogo i nuovi algoritmi e le nuove tecniche semi-supervisionate e con rinforzo hanno bisogno di una quantità di dati minore perché producono e simulano nuovi dati». Il segno di questa discontinuità lo troviamo con il passaggio da Deep Blue ad Alpha Go. Il supercomputer Ibm nel 1996 aveva battuto il campione mondiale di scacchi con il calcolo parallelo sulla base di decine di migliaia di combinazioni. Con Alpa Go l'intelligenza artificiale ha prodotto conoscenza, elaborando le strategie basandosi sulle regole e simulando le combinazioni. Queste tecniche di apprendimento automatico non azzerano ma riducono la distanza tra l'università e i Big cino-californiani. Anche perché la missione del laboratorio è quella di supportare le aziende italiane. Anzi, l'obiettivo dichiarato è quello di creare un ecosistema italiano dell'intelligenza artificiale, mettendo in rete e valorizzando le migliori competenze del Paese al servizio degli imprenditori in particolare quelli piccoli e medi che non hanno le strutture interne per fare ricerca.

«Non siamo un service - tiene a precisare Rita Cucchiara -. Lavoriamo su progetti a due e tre anni». L'idea quindi non è quello di guardare al breve periodo ma puntare su prototipi di medio e lungo periodo in linea con la visione del presidente francese Macron sull'intelligenza artificiale che - oltre a investire 1,5 miliardi di euro di fondi pubblici in cinque anni - punta appunto a innovazioni competetive per il 2022.

«Per capire cosa possiamo fare per le imprese occorre prima spiegare gli elementi che costituiscono l'intelligenza artificiale - tiene subito a precisare -. Sono tre: visione e linguaggio, ragionamento e azione. Percezione significa l' analisi di immagini e video, elaborazione del linguaggio naturale e in questo campo abbiamo eccellenze a livello aziendale ma anche accademiche come l'università di Catania. Per azione penso alla robotica e quindi alle competenze dell'Umberto II di Napoli, alla Sapienza di Roma, all'IIt e alla Scuola Sant'Anna di Pisa. Ragionamento logico e associativo significa apprendimento, quindi metodi di ragionamento automatici derivati dai dati. Anche in questo campo che abbraccia web semantico e machine learning sematico ricordo gli studi dell'Università di Milano e di Roma». Secondo la direttrice, insomma, non mancano le competenze accademiche ma quello che scarseggia è la capacità di attrarre le imprese. «La sfida è proprio quella di stimolare l'università a lavorare meglio con le aziende. Energia, fashion, retail e sopratutto salute, medicina e scienza della vita. Si può già partire da qui».

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