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La digital transformation fa i conti con le competenze carenti: assumere o…

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La digital transformation fa i conti con le competenze carenti: assumere o formare?

Come si fa a far partire la trasformazione digitale in azienda? «È una questione di persone, non di tecnologia», dice Renzo Noceti, cofondatore e Ceo di Simbiosity: «La discontinuità della digital trasformation in realtà cambia le relazioni tra i soggetti interni ed esterni all’azienda, il modo con il quale si decide e gli skill. Bisogna crearli internamente o trovarli, sviluppando quel che serve: anche perché il mercato e le persone intese, come consumatori, sono sempre più sofisticate nelle relazioni e si aspettano che le aziende si comportino in modi nuovi».

Se il cambiamento non è tecnologico, ma riguarda anche e soprattutto le persone, allora la domanda diventa: come fare a cambiare le persone? La risposta non è affatto semplice. Perché, se viene articolata, diventa: come si fa a pianificare il cambiamento? Come si costruiscono nuovi skill in azienda? Come cambia l’organigramma e come si fa a pianificare questo cambiamento? La trasformazione digitale chiede anche questo.

«Le nuove tecnologie – dice Josef Nierling, ad di Porsche Consulting Italia – portano alla trasformazione dei modelli di business, dei mix di prodotti e servizi offerti e delle modalità di interazione con il cliente. È inutile negarlo, le competenze chiave mutano: le aziende allora devono rendere trasparente a tutti i livelli il cambiamento».

«Un tassello fondamentale dell’implementazione di ogni nuova strategia – dice Nierling – è l’allineamento delle competenze al futuro. L’adeguamento della strategia di recruiting è sicuramente la più veloce nell’implementazione, ma serve anche un piano consistente di re-training delle persone all’interno dell’azienda».

Gli esempi di questo tipo di trasformazione sono in realtà molto più numerosi e diffusi di quel che non si creda. Manca un manuale delle istruzioni, però. Non c’è una traccia o un modello unico da seguire. Però c’è un metodo.

«Noi – dice Nierling – lo stiamo facendo in Porsche, in piena trasformazione da produttore di auto sportive a leader di servizi per la mobilità sportiva, e lo stiamo facendo in diverse aziende italiane, sia nel settore dei servizi, come le banche, sia nel manifatturiero. Il percorso è comune, si definisce prima di tutto chi al meglio può offrire le future competenze: fornitori, partner del futuro ecosistema o risorse interne. E, per gli interni, si mappano le competenze disponibili e si avvia un piano di formazione, spesso pluriennale».

Un elemento comune è anche il cambiamento del modello organizzativo perché cambiano le cose che si possono fare e chi le può fare. Ad esempio, nel settore manifatturiero: «Una figura centrale, ad esempio – dice Enrico Terenzoni, partner di EY – è quella di chi deve orchestrare i processi di digitalizzazione: un mix tra direttore delle tecnologie e direttore dei processi che riporta al direttore industriale quando l’azienda ha un taglio molto industriale, e che riporta invece all’ad quando l’impatto è su marketing, vendita, distribuzione. Il dato saliente però è che la trasformazione passa attraverso una cultura di iniziative puntuali, snelle, distanti dalla logica organica della fabbrica tradizionale. Per questo c’è contrasto culturale paradossalmente con il Cio, che nel mondo pre-trasformazione digitale pensa al sistema, ha una cultura di integrazione, difficilmente apprezza la mancanza di architettura e invece l’emergere di singoli tasselli trainati dai singoli processi».

La fabbrica vive in maniera particolare la trasformazione digitale. Un esempio negli Stati Uniti è Tesla: capace di reinventare il prodotto ma non riesce a comprendere il processo produttivo, a legare con un ponte il nuovo con il tradizionale, e, per usare le parole di Terenzoni, «rimane incastrata a metà fra innovazione e mancanza di competenze».

Però, anche nella fabbrica, così come nelle altre strutture delle aziende, emergono alcune regolarità: al cuore della trasformazione digitale ci sono gli skill delle persone, la loro capacità di prendere decisioni a tutti i livelli sulla base dei dati (per la prima volta disponibili in modo abbondante) e in modo rapido, e la maggiore interfunzionalità. Cioè, aggiunge Terenzoni, «la capacità di fare più correlazioni tra funzioni differenti: la capacità di leggere l’azienda e saper interpretare i dati in modo differente è un elemento fondamentale delle nuove competenze».

La profonda differenza culturale tra Europa e Stati Uniti, tra Industria 4.0 e Digital Trasformation insomma, nasce tra le pieghe di questo discorso. Da una parte il tentativo di trovare un modello interpretativo unico, per quanto articolato e flessibile, e dall’altra il desiderio di affidarsi al caos creativo di una trasformazione che può essere integrata in azienda ma che può anche portare, più spesso, alla nascita di nuovi soggetti autonomi e antitetici.

«Quale che sia la strada scelta – dice Noceti – c’è un elemento costante e centrale che sono le persone e le loro competenze. Lo vediamo dalla prospettiva della consulenza, in passato veicolo per l’innovazione aziendale centrata sull’aspetto innovativo delle tecnologie e dei modelli di business, ma che lasciava il tema degli skill fondamentalmente all’ufficio risorse umane. Oggi il matching delle competenze è un argomento centrale e tutti i big del settore devono farci i conti».

Cambiare le persone o cambiare persone? L’equilibrio, come osservava Nierling, è tra recruiting e re-training, tra assumere millennials e formare di nuovo X-generation e gli ultimi baby boomers, a volerne fare un problema di generazioni. Ma pensare in termini di generazioni per di più contrapposte non risolve, anzi complica. Perché è la visione d’insieme che conta: l’allineamento delle competenze al futuro, sulla base di alcuni punti di riferimento.

«Le aziende diventano sempre più razionali, orientate ai dati per la prima volta disponibili a tutti i livelli – dice Marco Morchio, managing director di Accenture Strategy Italia – e questo vuol dire acquisire nuovi skill di base, definire nuovi ruoli e farli lavorare in nuovi meccanismi di funzionamento. Soprattutto, cambia la velocità: bisogna prevedere tempi diversi di reazione, perché, perlomeno nella finestra temporale odierna, non ci sono più lunghi periodi di stabilità». La pianificazione d’azienda diventa così reazione e rapida evoluzione. L’alternativa? Per le aziende diventa complicato sopravvivere sul mercato.

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