Nell’ecosistema italiano dell’innovazione e della ricerca universitaria stanno prendendo forma due network. Uno è in fase
più avanzata: è la rete degli Uffici per il trasferimento tecnologico (Utt) di università ed enti pubblici; secondo il XIV
rapporto Netval sono 54, quasi uno per ogni ateneo. L’altro è quello nascente degli 8 Competence center ammessi alla fase
di negoziazione per accedere ai 73 milioni di euro messi sul piatto dall’allora Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda
per favorire, attraverso la nascita dei Centri, l’incontro tra l’offerta di ricerca “custodita” nelle università italiane
e la domanda di innovazione delle nostre imprese.
Osservando i due network, si fa una scoperta interessante: sebbene siano nate con genesi e finalità diverse, i nodi principali
delle due reti coincidono. Partiamo dagli Utt. Le interviste tra i responsabili del trasferimento tecnologico delle università
italiane condotte da Netval nel 2017 hanno messo in evidenza un consolidamento.
Tra i 54 Utt attivi emergono relazioni sempre più intense e aggregate intorno a cinque nodi: i Politecnici di Torino e Milano,
la Scuola Superiore Sant’Anna, l’Università di Bologna, l’Università di Roma La Sapienza e l’Università di Padova. Il rapporto
Netval li definisce Utt leader: intrattengono relazioni molto frequenti e rappresentano anche esempi di best practices per tutti gli altri.
Le università che rappresentano questi sei nodi del trasferimento tecnologico accademico nati “sul campo”, sono anche tra
le capifila - sei su otto - dei nascenti Competence center, in questo caso selezionate “sulla carta” dal Ministero dello sviluppo
economico, analizzando le candidature sulla base dei criteri del Bando. La sovrapponibilità delle due reti da una parte conferma
che il processo è stato in grado di far emergere le candidature più forti, dall’altra disegna una solida piattaforma per il
futuro della delicata operazione che porterà alla nascita dei Competence center.
Non è la prima volta che in Italia si tenta di creare centri di raccordo tra domanda e offerta di ricerca applicata: prima
i Parchi scientifici del mezzogiorno, poi i Distretti tecnologici, infine i Cluster tecnologici nazionali. Esperienze da molti
considerate false partenze, se non dei sostanziali fallimenti.
Secondo Stefano Firpo, direttore generale per la Politica industriale, la competitività e le Pmi presso il Mise, questa volta
potrebbe essere «la volta buona», per almeno tre motivi. «Il primo - spiega Firpo, che con il suo team in questi mesi sta
conducendo la complessa fase di negoziazione con gli otto Competence center selezionati: fase di verifica che porterà all’assegnazione
definitiva dei fondi - è che siamo partiti dall’esistente», ovvero da capofila già oggi «aggregatori naturali» di eccellenze
in fatto di trasferimento tecnologico. «Il secondo è che abbiamo promosso parternariati molto bilanciati tra il mondo dell’impresa
e quello universitario». Un bilanciamento «by design», come lo definisce Firpo: per ricevere la quota di fondi concessi per
sviluppare progetti di ricerca (pari al 35% del totale), il Centro deve dimostrare di aver stretto accordi che prevedano investimenti
da parte di privati per pari importo. Stando ai dati disponibili - relativi a cinque Centri su 8 e fatte salve verifiche in
fase negoziale - questo meccanismo avrebbe già permesso di raccogliere sul mercato l’equivalente di 26,1 milioni di euro come
contributo in personale conferito all’attività dei Centri e 12,1 milioni in contributi in contanti. A cui si aggiungono forniture
di macchinari e servizi per diverse decine di milioni. «Il terzo motivo - conclude Firpo - è che con l’avvio dei Centri, i
primi già entro quest’anno, l’Italia avrà finalmente un network per il trasferimento tecnologico capace di catturare i finanziamenti
europei, a cominciare da quelli di Horizon 2020». Inghilterra, Francia e Germania hanno fatto molto su questo fronte, che
per il prossimo triennio vale 60 miliardi di euro.
I rappresentanti dei compentence center si confronteranno oggi a Padova alle 14,30 a Palazzo Bo
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