Se il bitcoin fosse adottato in maniera generalizzata, da solo potrebbe provocare un rialzo di due gradi delle temperature globali in meno di vent’anni, annullando gli sforzi già insufficienti per contenere il riscaldamento globale. Forse a questo non aveva pensato Satoshi Nakamoto quando esattamente dieci anni fa ha messo in rete il paper che fissava le regole per «un sistema di pagamenti elettronici peer to peer», quello da cui sarebbe nato Bitcoin. Quell’enorme quantità di energia che rischia di accelerare il climate change serve a sostituire di fatto gli intermediari bancari, trasformati in potenti server incaricati di risolvere complessi enigmi crittografici. E di costruire la blockchain di bitcoin.
Non sarà il sistema più sostenibile del mondo, ma quello disegnato dal misterioso Satoshi potrebbe sfociare in un nuovo ordine economico basato sulla disintermediazione totale. Oppure trasformarsi nell’incubo di una delle più grandi truffe della storia economica globale, un enorme schema Ponzi destinato a lasciare il cerino in mano agli ultimi arrivati.
Poco più di due mesi dopo, a inizio 2009, vedeva la luce il genesis block, il primo mattoncino della “catena dei blocchi” di bitcoin, dentro al quale Satoshi aveva inserito un titolo del Times - «Il Cancelliere sta preparando un secondo salvataggio per le banche» -, che preannunciava un nuovo intervento di sostegno a un sistema finanziario globale in avvitamento all’indomani del fallimento di Lehman Brothers. E che il bitcoin, stando alle intenzioni, avrebbe reso del tutto superfluo.
Quotazioni sulle montagne russe
A dieci anni di distanza Bitcoin esiste ancora, a dispetto delle peggiori previsioni. E questo è un dato di fatto. La prima quotazione di bitcoin risale all’ottobre 2009: allora con un dollaro si potevano comprare 1.309,03 bitcoin, il che significa che la criptovaluta valeva neanche un decimo di pence. Oggi la quotazione oscilla da mesi tra 6.000 e 7.000 dollari, con una stabilità del tutto anomala per uno strumento abituato a una vita sulle montagne russe. Proprio un anno fa stava esplodendo sotto la spinta di un'ondata speculativa – o di una manovra costruita per manipolarne i prezzi, come sostengono in molti – che l'avrebbe portata a metà dicembre a sfiorare i 20mila dollari, per poi dimezzare il valore in un mese.
«Il bitcoin ha mostrato una resilienza straordinaria, la resistenza all’ossidazione che ci si aspetta dall’equivalente digitale dell’oro. È un fenomeno dirompente che non può essere né trascurato, né criminalizzato, tantomeno sminuito andando dietro alla chimera della blockchain magica», sostiene un entusiasta del bitcoin come Ferdinando Ametrano, direttore esecutivo dei Digital Gold Institute e docente di Bitcoin e tecnologia blockchain al Politecnico di Milano e all’Università di Milano Bicocca.
«Il white paper di Satoshi prometteva una moneta elettronica senza intermediari non basata sulla fiducia, un contante digitale - ribatte Luca Fantacci, docente di Storia e istituzioni del sistema finanziario alla Bocconi -. Questa promessa non è stata mantenuta: nei suoi primi dieci anni bitcoin è stato usato assai più come oggetto di speculazione che come moneta. E con l’apparizione di una pletora di intermediari, non sempre affidabili. Nel futuro prossimo potrebbe diventare un mezzo di pagamento non al dettaglio, bensì all’ingrosso, cioè uno strumento di regolamento all’interno di sistemi di compensazione, come l’oro nel commercio internazionale, ma prima del gold standard che l’ha trasformato nella base per l’emissione di moneta fiduciaria e l’accumulazione di squilibri finanziari».
D’altra parte con una volatilità del genere difficile che possa candidarsi a essere uno strumento di pagamento affidabile. Provate a chiedere allo sviluppatore che nel 2011 fece la prima transazione fisica comprando due pizze per 10mila bitcoin, che oggi varrebbero la bellezza di - milione più, milione meno - 64 milioni di dollari! Tanto più che il meccanismo di consenso e certificazione della blockchain rende il sistema piuttosto lento e costoso in un mondo di denaro che si muove ormai praticamente in tempo reale.
Investimento ad altissimo rischio
Ma anche come investimento si continua a confermare un mercato potenzialmente ad alto rendimento e altissimo rischio. L’anno scorso la paura di perdere il treno dei facili guadagni ha spinto molti risparmiatori sprovveduti a saltare sul carro in corsa, con il rischio concreto di vedere i propri risparmi volatilizzati.
Il boom di bitcoin ha trascinato l'intero comparto delle criptovalute cresciute a dismisura. Oggi sono più di 2.000 la monete quotate, stando al censimento di Coinmarketcap, con una capitalizzazione complessiva attorno ai 220 miliardi di dollari, la metà dei quali attribuibili proprio al bitcoin, dopo aver toccato un picco di oltre 800 miliardi a inizio anno. Alcune valute hanno perso fino al 90%, altre non esistono più.
Sono più di novecento quelle scomparse elencate nel “cimitero” online di DeadCoins. Scientificamente divise in scomparse (sono più di seicento), hackerate, vere e proprie truffe o semplici parodie – tra queste c'è anche un JesusCoin e un SilvioBerlusCoin. Una triste Spoon River del criptomondo che assomiglia quasi più a un circo Barnum, se non fosse che dietro quei nomi fantasiosi si celano spesso fondi spariti a scapito di ingenui risparmiatori attratti dallo specchio delle allodole di facili guadagni.
A partire dal suo misterioso inventore, bitcoin è nato e cresciuto all'insegna della scarsa trasparenza e dell’anonimato – anzi, della pseudoninmità – è stato sfruttato a piene mani da attori spregiudicati dando vita a vere e proprie truffe che non mancano mai in periodi di esuberanza finanziaria. Non è un mistero che il bitcoin fosse la valuta ufficiale di Silk Road, il mercato del deep web dove si scambiava di tutto, dalle armi alle sostanze illecite, prima di essere chiuso dalle autorità Usa.
Anche le Ico, le offerte iniziali di valuta, modalità di finanziamento delle iniziative in criptovaluta più simile al crowdfunding che non alle vere e propri Ipo azionarie esplose lo scorso anno, in assenza di regole e controlli hanno lasciato spazio a iniziative quantomeno dubbie.
Tra regole e ipotesi
D’altra parte l’assenza di regole ha apero la strada agli eccessi. A oggi le authority finanziarie globali non hanno ancora stabilito se si tratti di valuta, di security, di commodity o di una nuova categoria finanziaria. Wall Street ha cercato di imbrigliarlo ammettendo i contratti futures a Chicago all’inizio di dicembre, salutati una decina di giorni dopo con l’inizio del crollo delle quotazioni. Ma poi non si è andati molto più avanti: ancora oggi la Sec non ha autorizzato nessun Etf che replichi l’andamento del bitcoin. A partire da quello dei gemelli Winklevoss, quelli che hanno investito nel criptomondo i proventi della causa con Zuckerberg sulla nascita di Faceboook. Anche i big di Wall Street continuano a guardare al settore con interesse, ma poi faticano a passare all’azione. Per ultima Goldman Sachs ha congelato i piani per un desk di trading sulle criptovalute.
Non è escluso che a breve si trovi un accordo a livelo internazionale per operare una stretta sull’uso delle criptovalute per riciclaggio di denaro sporco. Non c’è dubbio, infatti, che in questi anni capitali di origine poco chiara siano entrati in questo mondo sfruttandone le opacità. Ci sono valute come Monero e Zcash che favoriscono il totale anonimato. La blockchain di bitcoin, per sua natura, tiene traccia in maniera immutabile di tutte le transazioni e il faro accesso dalle intelligence di tutto il mondo ne ha in qualche modo sconsigliato l’utilizzo per fini illeciti.
Intanto diverse Banche centrali stanno osservando da vicino le criptovalute per capire se un domani ne potranno trarre dei benefici. Si può immaginare che una parte delle riserve possa finire in questo comparto, trattato alla stregua di oro digitale. Oppure che siano emesse valute digitali “ufficiali”. In questo senso le “stablecoin”, criptomonete agganciate a valute fiat, possono rappresentare criptocopie della valute a corso legale.
La macchina della fiducia
Anche se non tutti sono d’accordo, il bitcoin non è che la prima applicazione della blockchain, la distributed ledger technology. Il sistema messo a punto da Satoshi risolve in ambito digitale il problema della “doppia spesa”, garantendo la certificazione della transazione laddove non c’è la fiducia tra le parti, facendo il ruolo della terza parte che fa da certificatore. Tanto che l’Economist in una famosa copertina ha parlato di “macchina della fiducia”.
La blockchain ha ancora oggi applicazioni concentrate sulla finanza, che copre il 60% delle iniziative. Ma si ampliano le applicazioni industriali, dalla logistica integrata con il sistema di fatturazione e di registrazione doganale alla supply chain per le filiere industriali o per la grande distribuzione, dalla certificazione di provenienza per l'agroalimentare a quella di qualità in chiave anticontraffazione.
È questa, forse, la vera innovazione che a dieci anni di distanza inizia a dispiegare i suoi effetti anche al di fuori del sistema finanziario. Stando ai più recenti dati di Diar, le startup attive su blockchain e criptovalute hanno raccolto 3,9 miliardi di dollari in investimenti del V ceni primi nove mesi dell’anno, il che vuol dire quasi quattro volte tanto l’intero 2017. Mentre i progetti industriali sarebbero raddoppiati attorno a due miliardi di dollari.
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