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Un mondo senza plastica? Una filiera da riprogettare da zero in un’ottica circolare

AFP
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Viviamo in un pianeta di plastica e sarà sempre più così. In base a un recente studio delle università americane della California e della Georgia, in questo mezzo secolo sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica insolubile e le previsioni dei ricercatori stimano che questa montagna crescerà fino a 34 miliardi di tonnellate nel 2050. A quel punto, negli oceani ci sarà più plastica che pesci, in termini di peso. Di questa enorme massa, infatti, solo il 9% è stato riciclato e il 12% bruciato nei termovalorizzatori, mentre il 79% è andato a inquinare l’ambiente, in discarica, sul territorio o in mare. Ma c’è chi comincia a preoccuparsi per questa epidemia di plastica. Il Parlamento europeo si è appena pronunciato a larga maggioranza per mettere al bando la plastica monouso entro il 2021 e la settimana scorsa quasi 300 colossi che contribuiscono all’epidemia hanno firmato un Global Commitment per un’economia circolare della plastica, promosso dalla fondazione Ellen MacArthur e dal programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Tra i firmatari ci sono le aziende responsabili del 20% di tutti gli imballaggi di plastica a livello mondiale, come Danone, Mars, Unilever, Coca Cola, PepsiCo, H&M, L’Oreal, oltre a specialisti nella gestione delle risorse come Veolia e produttori di materie plastiche, dal colosso del polietilene Borealis al campione italiano delle bioplastiche Novamont. L’obiettivo è disaccoppiare la produzione di plastica dalle fonti fossili, in primis eliminando i consumi inutili e per il resto usando solo materiali biodegradabili, insieme alla plastica già prodotta finora e riciclata. I polimeri fossili dovrebbero essere riservati alle applicazioni dove sono irrinunciabili, come nei dispositivi medici.

Da qui la corsa alla riprogettazione dell’intera filiera, per aprire le porte ad alternative alla plastica fossile e a nuovi materiali bio da affiancare a elementi tradizionali perfettamente validi, come la carta, il vetro o l’alluminio, soprattutto negli imballaggi, che in questi anni hanno spinto l’uso indiscriminato della plastica anche dov’è superflua. I materiali organici derivati da piante o animali non sono una novità, ma ora il punto è ottenere caratteristiche di stabilità, robustezza e flessibilità analoghe a quelle della plastica fossile con i polimeri naturali come lignina, cellulosa, pectina e chitina che, a differenza dei polimeri sintetici o semisintetici, si biodegradano molto rapidamente.

Con il suo Mater-Bi, la madre di tutte le bioplastiche, Novamont offre ad esempio soluzioni per la spesa con i suoi sacchetti, per l’agricoltura con la pacciamatura biodegradabile, per l’alimentare con piatti, bicchieri, posate e contenitori, per la raccolta della frazione organica, per gli imballaggi e per altre applicazioni, dai biofiller per l’automotive ai prodotti per l’igiene personale. E ora si sta allargando alla bio-cosmetica, grazie alla linea Celus-Bi, che comprende anche la produzione di sfere biodegradabili utilizzabili come agenti esfolianti, che se realizzati con microplastiche fossili causano l’accumulo nei fanghi dei depuratori e il loro inquinamento. Il successo della strategia Novamont, guidata da Catia Bastioli, è dimostrato dalla progressiva riconversione alle bioplastiche di pezzi sempre più importanti della chimica italiana, come lo stabilimento MaterBiopolymer di Patrica, in provincia di Frosinone, che rischiava la dismissione e invece ha appena raddoppiato la produzione, dopo essere stato traghettato dal Pet ai biopoliesteri.

La principale molecola impiegata dall’industria della bioplastica, anche da Novamont, è stata per anni l’amido, un polisaccaride contenuto in riso, mais, grano, patate e manioca. La bioplastica da amido può essere facilmente compostata a livello industriale e si degrada più veolcemenete dei polimeri fossili, ma rimane per diversi anni nell’ambiente acquatico. Ma ci sono molte altre fibre, perloppiù di scarto, da cui è possibile produrre materiali termoplastici. Un esempio è la cutina, bio-poliestere ceroso che si trova nella cuticola delle piante, ricavato ad esempio dalla buccia dei pomodoro. Un consorzio italiano, Biocopac Plus, è riuscito a produrre con la cutina una bio-vernice per foderare l’interno degli imballaggi alimentari metallici, che in questo modo possono essere più facilmente riciclati.

Un caso a parte sono le fibre ottenute dai funghi: il recente sviluppo dei miceli per produrre strutture relativamente robuste si sta facendo strada in settori come quello degli imballaggi o dell’isolamento edilizio. L’innovazione più nota si chiama EcoCradle, è prodotta dalla Ecovative Design, azienda di Green Island, New York, e si tratta di contenitori a base di funghi, che vengono coltivati utilizzando gli scarti dell’agricoltura, come semi di cotone, truciolo o buccia del grano saraceno. Gli scarti agricoli, il micelio e le radici dei funghi vengono versati in uno stampo. In poco tempo i funghi assorbono gli scarti adattandosi al contenitore e una volta che si è raggiunta la forma desiderata il composto viene trattato con il calore che ne blocca l’ulteriore crescita.

Oltre ai biopolimeri vegetali cresce anche l’utilizzo dei polimeri ottenuti dalle proteine animali come cheratina, fibroina, caseina: in alternativa ai tessuti sintetici si stanno sperimentando soluzioni come il QMilch, seta ottenuta dalle fibre di latte. Il chitosano, ottenuto dalla chitina, presente nell’esoscheletro di insetti e crostacei, è un polisaccaride estratto principalmente dai gusci di scarto di aragoste, granchi e gamberi. Il nuovo biomateriale possiede eccellenti proprietà adesive resistenti all’acqua, oltre a un’elevata stabilità meccanica. In forma di nanofibre il chitosano è già stato utilizzato per formare rivestimenti isolanti da acqua e oli oppure materiali adatti per gli imballaggi, ma siamo ancora a livello sperimentale.

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