Macchine che riconoscono l’ordine nel caos di immense quantità di dati, di solito, non strutturati. Immerse in quegli oceani di informazioni, formulano modelli che poi, automaticamente, riconoscono immagini e parole, classificano documenti, scelgono traiettorie per veicoli senza conducente, conversano in linguaggio naturale, prevedono le necessità di manutenzione delle attrezzature nelle fabbrica, giocano a Go, leggono le radiografie per produrre diagnosi, e così via. Quelle macchine, educate a imparare, sono la forma attualmente assunta dall’intelligenza artificiale. Non c’è tecnologia della quale si parli di più. Per Gartner, il gigante delle analisi dedicate a informare gli innovatori digitali in azienda, l’intelligenza artificiale è arrivata al picco dell’“hype”: quell’attenzione maniacale che conduce tantissime persone a parlare di un fenomeno, anche senza comprenderlo appieno, in nome di una speranza eccessiva o di una paura mal riposta.
L’intelligenza artificiale, in effetti, è vagamente inquietante, osserva Antoinette Rouvroy ricercatrice al Centre de Recherche Information, Droit et Société, perché il suo nome evoca il fantasma di un’inesistente fungibilità tra umani e macchine. Ma ora, seguendo il tipico ciclo dell’adozione tecnologica, l’intelligenza artificiale nella sua forma attuale si trova di fronte al momento cruciale: quello che deve condurla a mantenere le promesse, oppure a ridimensionare le aspettative. Di certo, però, non tornerà nei laboratori dai quali è uscita: il genio del “deep learning” che si sta sviluppando sul mercato ha ormai dimostrato di funzionare. Rispondendo alle necessità di un’epoca invasa dai dati che vanno gestiti e valorizzati.
“Machine learning” e “big data” sono, in effetti, due facce della stessa medaglia. Conseguenza della digitalizzazione avvenuta nella vita quotidiana, i dati sono un bisogno e un’opportunità. Dati e algoritmi hanno conquistato le intenzioni strategiche delle aziende: secondo Idc, il 75% degli applicativi sviluppati per le imprese includeranno l’intelligenza artificiale entro il 2021 e, come si legge nel recente rapporto di Klecha & Co, la spesa in intelligenza artificiale salirà a 52 miliardi di dollari, contro i 19,1 miliardi stimati per il 2018. Ma quanto andranno in profondità i progetti applicativi di queste tecnologie? Quanto cambieranno il lavoro e le opportunità di sviluppo? Saranno fatti per aumentare l’efficienza delle aziende o la produttività delle persone?
Le analisi di Gartner aiutano a leggere il fenomeno nelle giuste proporzioni. Si basano su dati rilevati nell’enorme insieme di aziende che il centro di ricerca analizza da decenni. E il risultato è illuminante. Nelle società - basate negli Stati Uniti e nel Regno Unito - che non fanno uso di intelligenza artificiale il 77% delle persone ritiene che questa tecnologia avrà un enorme impatto e che ridurrà i posti di lavoro. Ma le società che fanno già uso di intelligenza artificiale registrano una diminuzione dei posti di lavoro solo nel 16% dei casi, mentre vedono invece un aumento dei posti di lavoro nel 26% dei casi, con nessun cambiamento nel 57% dei casi. A livello aggregato globale, Gartner registra fenomeni di eliminazione e di creazione di lavoro in relazione all’introduzione di intelligenza artificiale, con una prevalenza per l’eliminazione nel 2018 che si trasforma in una prevalenza per la creazione a partire dal 2020, quando, secondo le previsioni di Gartner, in relazione all’introduzione di quella tecnologia si elimineranno 1,8 milioni di posti di lavoro e se ne creeranno 2,3 milioni. Grandi numeri, ma relativamente contenuti se si considera che stiamo parlando di tutto il pianeta. In realtà, l’intelligenza artificiale non sostituisce, ma trasforma il lavoro: «I Cio delle aziende devono preparare le persone a tecnologie che cambiano il contesto lavorativo riducendo il tempo dedicato a mansioni ripetitive e liberando tempo per le attività più creative», dicono a Gartner. «Le macchine leggono i dati e offrono opzioni interpretative, ma sono le persone a decidere, con la testa e con il cuore», spiega Svetlana Sicular, vice presidente per la ricerca di Gartner. «Le macchine servono per fare quello che non si farebb€e senza di esse», commenta Felice Petrignano di Ibm.
È una rilevazione che smentisce molte opinioni allarmistiche sulla questione. E andando a vedere nel concreto che cosa succede dove l’intelligenza artificiale è già applicata, questa rilevazione viene confermata in pieno. Marco Trombetti, fondatore di Translated e Pi Campus, ha introdotto l’intelligenza artificiale nel suo business di traduzioni fin dal 2004. All’inizio i traduttori erano preoccupati di essere sostituiti dalle macchine. «Oggi sono felici - racconta Trombetti -: non devono tradurre tutto il testo. Ricevono un’ipotesi di traduzione realizzata dalla macchina e la correggono. Oggi il prezzo per parola tradotta è sceso, ma il reddito del traduttore è raddoppiato perché la produttività è aumentata». A Pi Campus si insegna intelligenza artificiale, lavorando su ricerche di punta e progetti applicativi. L’esperienza è chiara: «L’automazione conviene solo per attività che gli umani non svolgerebbero, perché troppo costose o troppo povere».
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