Come gestiscono i contenuti digitali le aziende? Quali difficoltà incontrano? E come le affrontano? Sono le domande che introducono
una ricerca commissionata dalla padovana Thron (uno dei più accreditati specialisti al mondo nel campo delle soluzioni di
digital asset management) a Forrester Research, ricerca presentata in occasione del Netcomm Forum in programma a Milano e
nella quale emergono i comportamenti adottati da 200 importanti aziende europee e il livello di diffusione dei progetti che
prevedono un approccio intelligente alla gestione dell'intero ciclo di vita dei contenuti digitali.
Nello scenario descritto dagli analisti emerge innanzitutto come la proliferazione dei canali di comunicazione online e la
pervasività del digitale abbia elevato questi contenuti (testi, immagini, video, audio) al rango di strumenti di riferimento
per la creazione di relazioni tra i brand e i loro clienti. Cosa comporta l'affermazione di questo nuovo paradigma per le
aziende? Sostanzialmente tre cose. La necessità di tenere sotto controllo tutti i “touchpoint” in cui quest'interazione può
avvenire, di produrre con continuità nuovo “materiale” per gli utenti e di gestire in modo adeguato (evitando di danneggiare
la customer experience) questa enorme mole di contenuti, in termini di costi e di risorse dedicate.
Digital asset management: perché è necessario
Le tradizionali attività di marketing e comunicazione, che rimangono l'ambito in cui vengono maggiormente sfruttati, non sono
l'unico campo di applicazione dei contenuti digitali: partendo da questo dato di fatto, l'indagine ha evidenziato come praticamente
tutte le aziende intervistate li utilizzino trasversalmente a varie aree e funzioni dell'organizzazione, spaziando dall'e-commerce
alla formazione. Il punto focale della questione sono le modalità attraverso le quali, dopo averli prodotti, i contenuti vanno
impiegati. Ed è qui che entrano in gioco le soluzioni di digital asset management (Dam), destinate a un ruolo sempre più centrale
per un motivo molto semplice: per coinvolgere una clientela sempre più distratta dalle molteplici offerte e mantenere la sua
attenzione nel tempo, le aziende destinano budget sempre più importanti per la produzione di contenuti di qualità. Assomigliando
sempre di più a degli editori. Per affrontare tale cambio di pelle, serve chi le possa affiancare centralizzando qualsiasi
asset digitale e distribuendoli senza duplicazione su Web, app mobile, sistemi di digital signage, portali di e-commerce e
altro ancora. La missione di Thron è proprio questa, e cioè gestire e analizzare (su una piattaforma in cloud) i contenuti
in modo intelligente, rilevare gli interessi di ogni singolo utente e rendere i contenuti stessi ritrovabili e riutilizzabili
nel tempo, misurandone le performance perché siano più efficaci.
Le priorità dei brand: la customer centricity
Se l'importanza dei contenuti quale veicolo per acquisire nuovi clienti è assodata, non meno vitale è l'impatto che gli stessi
esercitano nel raggiungimento di altre priorità definite come “decisive”. Per il 39% delle imprese oggetto di indagine, il
primo obiettivo da perseguire nei prossimi dodici mesi sarà la centralità del cliente, la cosiddetta “customer centricity”,
mentre il 40% punta ad allineare la customer experience offerta dal brand con le promesse indirizzate ai clienti. A seguire
c'è la volontà di sfruttare maggiormente gli insight e di accrescere le capacità di personalizzazione mentre il miglioramento
dei processi legati ai contenuti è ritenuto “decisivo” da un terzo del campione. Quante alle principali sfide, le aziende
sono chiamate a vincerne sostanzialmente due: produrre contenuti velocemente e comprendere quelli di maggior interesse per
gli utenti. Troppo spesso, si legge nel rapporto, si è invece in presenza di strumenti e approcci di gestione del contenuto
(ideazione, creazione, approvazione, classificazione, pubblicazione, archiviazione, raccolta di dati) poco coerenti e non
coordinati tra loro, che impegnano budget eccessivamente elevati (mediamente il 7,3% del budget a disposizione del marketing).
La metà delle aziende campione, recita lo studio, incontra difficoltà in più punti del ciclo, pagando un dazio elevato in
fatto di spreco di tempo e risorse, sia umane che economiche.
Benefici e risultati
Un secondo livello di problemi causato da dati frammentati e non facilmente rintracciabili riguarda quindi l'impossibilità
di personalizzare l'esperienza utente. Il 41% delle aziende ammette carenze nella fase di distribuzione degli asset digitali,
e più precisamente una fase di raccolta poco coerente che rende di fatto inutilizzabili i dati grezzi provenienti da piattaforme
diverse (che invece necessiterebbero di essere uniformati). Una fetta simile di imprese, il 40%, dichiara di non possedere
la tecnologia e di non aver implementato i processi utili ad aggregare e analizzare i contenuti. Con tutte gli impatti negativi
del caso sulla customer experience.
La “content intelligence”, secondo gli esperti, è quindi la soluzione per riuscire a rispettare le aspettative dei clienti,
partendo dal presupposto che i margini per rendere la gestione dei contenuti più efficiente ci sono. E sono le stesse aziende
ad indicare i benefici aspettati dall'opera di “razionalizzazione” degli asset digitali e dalla possibilità di acquisire insight
migliori, citando in modo particolare una produzione di contenuti più efficace e tarata sull'audience, la maggiore efficienza
nei team creativi e il miglioramento dei livelli di engagement.
Un terzo delle aziende intervistate hanno già abbracciato soluzioni per la gestione centralizzata ed intelligente dei contenuti,
le altre ne stanno pianificando l'adozione. Per le prime, gli “early adopter”, si sono materializzati negli ultimi dodici
mesi economics migliori: il 76% delle aziende che utilizzano la content intelligence ne hanno beneficiato in termini di nuovi
clienti acquisiti, mentre decisamente positivi sono anche i risultati ottenuti in fatto di riduzione dei costi per servire
i clienti e di riduzione del tempo impiegato dai team per la gestione dei contenuti, senza dimenticare un tasso di abbandono
del brand decisamente più contenuto rispetto alle aziende che ancora devono “svoltare”.
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