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Fabbrichette al tramonto

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Economia e Società

Fabbrichette al tramonto

Camminata per la pace. Massimo Dolcini, «Grafica per una cittadinanza consapevole». Sondrio, Galleria Credito Valtellinese e MVSA Palazzo Sassi de’ Lavizzari, dal 15 luglio
Camminata per la pace. Massimo Dolcini, «Grafica per una cittadinanza consapevole». Sondrio, Galleria Credito Valtellinese e MVSA Palazzo Sassi de’ Lavizzari, dal 15 luglio

Sono trascorsi più di trent’anni dall’avvento della Terza Italia: quella caratterizzata, rispetto ai siti storici del Nord-ovest (alle prese allora con la stagflazione), da un’irruente espansione dell’industria manifatturiera tra il Nord-est e la dorsale adriatica, tra una costellazione di borghi tosco-emiliani e alcune località del Centro-sud. Di quel fenomeno, denso di fermenti innovativi e dalla carica propulsiva, rimangono ancora varie tracce, grazie alla sopravvivenza di diversi distretti specializzati fioriti in passato. Ma ciò che salta all’occhio, confrontando le trasformazioni di ieri e la grigia situazione odierna, è soprattutto una parabola declinante, una radicale inversione di tendenza. Poiché il paesaggio economico e sociale, un tempo rigoglioso e versatile, ha perso sempre più smalto e spessore al punto da risultare ormai irriconoscibile. Di qui un senso di estraniazione e di smarrimento.

È questa la penosa quanto accorata impressione (suffragata da documenti e analisi, incontri e testimonianze) che Marco Revelli ha riportato dall’itinerario da lui compiuto attraverso alcune località emblematiche di quello che venne definito a suo tempo come una sorta di «secondo miracolo economico», dopo quello avvenuto negli anni Sessanta. E che ora appaiono invece per lo più in disarmo, sfiancate e depresse non solo a causa dei gravi contraccolpi di una lunga recessione ma anche per il sopravvento di un clima angoscioso e sfibrante di frustrazione e di sfiducia nelle possibilità di risalire la china, che ha contagiato, salvo alcune eccezioni, numerose zone del Paese, in seguito al vistoso calo di quasi un quarto della produzione industriale, dal 2008, dopo la Grande crisi finanziaria e le prevalenti rigide terapie di stretta austerità d’impronta tedesca.

Il viaggio-racconto di Revelli si presta perciò a una duplice chiave di lettura, in quanto è imperniato sia su un continuo raffronto tra un’epoca e l’altra nei loro aspetti economico-sociali di fondo sia su una riflessione d’insieme sui loro rispettivi tratti distintivi e prospettici. Quanto emerge da questo suo periplo (che parte da una company-town per antonomasia come Torino per poi snodarsi attraverso le contrade bergamasche e quelle bresciane, il cuore della Brianza e alcune roccaforti industriali del Triveneto, il distretto di Prato e le filiere toscano-marchigiane, la megafabbrica dell’Ilva di Taranto e altre ex «cattedrali del deserto» pugliesi e calabre, sino alla mèta finale di Lampedusa, estrema frontiera fra Europa e Africa) è in complesso un ritratto duro e aspro, spesso desolato, ma realistico e incisivo. Poiché descrive un paesaggio dai molti vuoti che, contrassegnato per parecchio tempo da una convulsa metamorfosi andata man mano esaurendosi, ha lasciato dietro di sé una massa di detriti e un cumulo di cocenti delusioni in un universo umano ora spaesato e dolente. Di questo mutato scenario, rispetto alle sue diverse matrici originarie, e nel mezzo delle sue attuali derive, Revelli ha tracciato un quadro reso interessante da alcuni illuminanti elementi di conoscenza e di giudizio in presa diretta.

Va peraltro osservato che quella singolare performance, di cui furono protagoniste in passato tante aziendine e fabbrichette operanti nell’indotto dei maggiori complessi industriali (in via di transizione dal fordismo ferreo delle catene di montaggio e degli operai-massa al post-fordismo dei robot e dell’esternalizzazione di pezzi della produzione) o nel giro pulviscolare dell’«economia sommersa», venne considerata severamente dalla sinistra come espressione unicamente di un «subcapitalismo» rozzo e informe, senza regole di sorta e per lo più senz’altre leve che il «lavoro nero» e l’«arte di arrangiarsi»: anziché vivaio di un «capitalismo molecolare», caratterizzato da un insieme sia pur confuso di energie e attitudini espresse per lo più da una schiera di micro-imprenditori venuti alla ribalta dagli anfratti di vari ceti popolari animati da una robusta volontà di riscatto e di affermazione. Salvo che essa dovette poi ricredersi quando molti di essi finirono per svolgere funzioni di salvagente del sistema produttivo negli anni micidiali del cortocircuito fra ristagno e inflazione e dell’offensiva a tappeto delle multinazionali d’Oltre Atlantico.

A ogni modo c’è adesso da augurarsi, come ha fatto Revelli a conclusione della sua ricognizione di tanta parte dell’Italia impoverita, ripiegata su se stessa e avvilita, che possano rispuntare e crescere certe «piccole piantine verdi» come egli le chiama, ovvero nuove opportunità di sviluppo economico e mobilità sociale. Ma, certo, è estremamente difficile oggi, in cui si ha a che fare anche con una crescente e pervasiva finanziarizzazione dell’economia e con un’aggressiva concorrenza dei colossi asiatici, un vero e proprio «salto di qualità».

Marco Revelli, Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi, Torino, pagg. 250, € 20

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