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A Cogne la macchina del tempo porta nel cuore della vecchia miniera

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VAL D’AOSTA

A Cogne la macchina del tempo porta nel cuore della vecchia miniera

Primo, coprirsi molto bene. Secondo, prepararsi a un viaggio nel tempo e nella storia, nel racconto della fatica di un lavoro che ha segnato migliaia di esistenze, ma che, in fin dei conti, ha fatto la fortuna di una comunità. Un fine settimana (o più) a Cogne, meno di 30 chilometri da Aosta, celebre per i 50 ettari dei magnifici prati di Sant'Orso e per la vista mozzafiato sul Gran Paradiso, non può prescindere da una visita alla miniera, riaperta alle visite da meno di un anno. Tre turni al giorno, il primo alle 10, con una salita quasi verticale dai 1.544 metri del paese ai 2.030 del sito di Costa del Pino (un'ora e mezza a piedi, dieci minuti se portati in auto, con extra di 11 euro fra andata e ritorno).

Di qui, fino allo stop improvviso e definitivo per esaurimento del filone, nel 1979, partiva la funivia che portava a valle e poi all'acciaieria di Aosta la preziosa magnetite, il minerale ferroso estratto dal cuore della montagna, frantumata e pronta per l'uso. Tutto all'apparenza molto semplice. E invece no. La visita guidata è affascinante perché rende molto bene l'idea della vita dei minatori. Durissima. Seppure ricompensata da un salario doppio rispetto a quello di chi se ne stava a valle, nelle stalle e nei campi. Denari che hanno richiamato nei decenni lavoratori da molte parti d'Italia e permesso ai loro discendenti di costruire case confortevoli e strutture ricettive, gli alberghi che oggi sono parte integrante della nuova miniera di Cogne, il turismo.

A Costa del Pino, da dove si gode una vista spettacolare sul Gran Paradiso e il Monte Bianco, si lavorava su tre turni di otto ore, h24. Coperti in maniera relativa, con indumenti che al massimo riparavano dall'umidità e dall'acqua filtrata dall'alto del monte Creya (3015 metri). Fortunatamente non si correva il rischio di esplosioni per fughe di gas (assente) ma la fase di perforazione della roccia, prima del posizionamento delle cariche di esplosivo, era una sfida alla resistenza umana. Almeno fino all'arrivo, una sessantina di anni fa, di macchinari più moderni (anche questo, sforzo ciclopico, realizzato a mano).

Gli uomini usarono per decenni dei “martelli pneumatici” incredibilmente pesanti, che si fa fatica a sollevare anche solo per farsi un'idea. E con quelli si doveva penetrare una roccia compatta e durissima: un decimetro cubo pesa alcuni chili. Le pause erano rare. Anche perché, in tempo di guerra, quando la miniera forniva acciaio per fabbricare armi, la produttività veniva misurata dalla quantità di materiale prodotto dai singoli: se si mancavano per più giorni consecutivi gli obiettivi prefissati, la punizione era lo spauracchio tanto temuto dai minatori e dalle loro famiglie: si partiva per il fronte.

Il film documentario "Questa Miniera" di Valeria Allievi

L'atmosfera viene resa molto bene dal viaggio sul trenino, quello originale, che si addentra per un chilometro e 200 metri in un tunnel buio e angusto, fra pareti di roccia. Si arriva così all'imbocco della discenderia principale, 600 metri di lunghezza all'occorrenza percorribili a piedi, non senza qualche affanno (sono 2400 scalini su una scala in legno originale che conduce al villaggio minerario di Colonna, di cui parliamo più avanti). Lungo la discenderia correva, issato da una fune, lo skip, il carrello per il trasporto della magnetite appena estratta ai diversi livelli, una quarantina, della miniera.

Con un'altra scala metallica di 125 gradini - i meno allenati sono avvisati - si arriva alla sala in cui i blocchi di roccia venivano sbriciolati da enormi macchinari per essere resi trasportabili. Qui si lavorava in un ambiente dove regnavano sovrani la penombra, il frastuono e la polvere prodotta dalla frantumazione, che si diffondeva ovunque e veniva respirata ogni giorno dai minatori.

I vecchi edifici, gli utensili anche autoprodotti, le sale così come sono state abbandonate (la chiusura è avvenuta senza preavviso, da un giorno all'altro) rendono la visita un'esperienza imperdibile per chi vuole conoscere davvero Cogne. Un viaggio nella storia, appunto. Si pensi solo che le prime informazioni sullo sfruttamento minerario risalgono al 1432 e riguardano un antico atto di vendita in cui si fa riferimento esplicito al ferro estratto ed in cui viene specificata la proprietà vescovile delle miniere e delle officine di Cogne.

Un caschetto protettivo, la funivia (oggi inutilizzata a scopo turistico) e sullo sfondo le montagne viste da Costa del Pino (foto di Alberto Annicchiarico)

La comparsa nel tempo d'imprenditori stranieri non piacque alla popolazione locale, che iniziò a rivendicare i diritti sulla sua miniera. Gli attriti tra la proprietà vescovile e i cognein si conclusero nel 1679, quando il vescovo Antoine Philibert Bailly, stanco dei continui scontri, vendette le miniere al Comune di Cogne per 300 pistole d'oro spagnole. Seguirono secoli nei quali si alternavano momenti floridi e momenti di stanca nell'estrazione. Il dottor Emmanuel César Grappein, a cui è dedicata una delle strade principali del paese, nei primi anni del 1800 prese la direzione della miniera e instaurò una gestione di tipo cooperativo, in cui l'estrazione, il trasporto e la vendita del minerale erano gestiti da tutta la comunità di Cogne.

Nel 1910 la gestione belga iniziò i lavori di costruzione del villaggio di Colonna (a 2.425 metri, la più alta miniera di ferro d'Europa) che, una volta terminato, ospitava circa 400 operai ed era per l'epoca una struttura all'avanguardia: docce calde (che a valle si sognavano), cinema, campo da bocce, chiesa e perfino uno dei primi apparecchi di radiografia nell'infermeria. Nel 1927 il governo fascista nazionalizzò tutte le miniere e fondò la “Società Anonima Nazionale Cogne”. Lo sfruttamento del sito proseguì anche dopo la seconda guerra mondiale, sotto varie società, fino al 1968. Un periodo di grande fermento, perché il lavoro in miniera richiamò giovani da tutta Italia, molti dei quali si integrarono bene nella nuova realtà e decisero di rimanere in valle anche dopo la chiusura.

Purtroppo la Regione a guida Rollandin, travolta sul finire di un lungo mandato da inchieste per corruzione, per una precisa scelta politica (si sarebbe preferito impegnare i quattrini per una funivia da Cogne alla stazione sciistica di Pila, poi non realizzata) non ha incluso Colonna nel Parco minerario. Così questo villaggio, preziosissima testimonianza di un'epoca, rischia di andare in rovina. Il Comune di Cogne, tornato proprietario della miniera, riconsegnata da Fintecna, ha ripreso a discutere su recupero e valorizzazione: vedremo se alle buone intenzioni seguiranno i fatti.

@albe_

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