La terra come polvere di stelle che brillano nel buio più nero. Così saranno il Friuli, ma anche ampie zone del Veneto orientale, nella notte del 5 gennaio. È la dodicesima notte (dopo il Natale), quella dell’Epifania, che tutte le feste porta via ma con la consolante luce dei falò. La tradizione è antica e parla di fuoco, benedizioni, fumo e presagi. Tutto parte dal fuoco, che lega cielo e terra, che annuncia l’arrivo di Gesù e che con il brillio della cometa guida i Re Magi fino alla grotta di Betlemme.
Tutto parte da lontano e, nel nostro contemporaneo, diventa fuoco epifanico o falò o pignarûl, come spesso sono chiamati in Friuli. Immense cataste di legna, stoppie e ramaglie che ardono nel buio della dodicesima notte per aiutare la vita ad affacciarsi di nuovo dopo il freddo dell’inverno e per sostenere il sole nelle giornate più corte del solstizio d’inverno in attesa di quelle infinite del solstizio d’estate. Termina il buio, ricomincia la luce. Con il fuoco che si fa credenza, anche nel XXI secolo, e che ha radici antiche tanto che già nel 1875 lo storico Pietro Ellero scriveva: «La sera dell’Epifania nelle campagne friulane veggonsi di spesso falò: taluno vi trova un ricordo della stella de’ Magi, ma quelle cataste di canne e di sterpi che ardono a me pare richiamino più le pagane, che le cristiane memorie».
Ogni paese, ogni borgata, ogni casale in Friuli fa il proprio falò, ma la tradizione ha ampi riscontri in tante parti d’Italia. L’evento al quale partecipare per respirare gioia di festa, lasciti precristiani e fumi augurali è a Tarcento, cittadina friulana a ridosso delle Prealpi Giulie. Qui non c’è il monopolio del pignarûl ma la costanza di aver mantenuta viva la tradizione. A Tarcento dal 1928, l’Associazione Pro Tarcento organizza il grande falò, il pignarûl grant del Ciscjelat di Coia (Castello Frangipane), nella serata del 5 gennaio. Che non è solo l’immensa pira, alta una quindicina di metri e realizzata dal gruppo Alpini di Coia, ma anche tutta una comunità che diventa cultura e storia: la rievocazione storica accoglie il Vecchio venerando che porta il fuoco, il corteo dei pignarulârs con le fiaccole, la corsa dei carri infuocati che si contendono il palio dei pignarulârs. Sale la luce delle fiaccole, l’emozione e la gioia di essere parte di qualcosa di arcaico e contemporaneo.
Prima la benedizione, poi brucia la catasta immensa di Tarcento, così come tutte le centinaia accese sulle colline e in pianura, e la terra diventa una cometa di luci. E quasi ogni borgo friulano chiama il fuoco epifanico a proprio modo: la studiosa Piera Rizzolatti nel 1996, su Ce fastu?, la rivista della Società filologica friulana, ne aveva censiti 76. C’è pignarûl (termine in uso a Tarcento, Gemona, Buia, Maiano, Trivignano), ma anche l’arbolàt (fra Arzene e Valvasone), il capàn (ad Aviano), la cabossa (a Ruda), la fogherata di Arba, il minili di Cavazzo Carnico, il pan e vin di Udine, la tamosse di San Giorgio di Nogaro.
Qualsiasi sia il nome della pira, tanti sono gli elementi che rendono questa tradizione omogenea: una pertica centrale, lo stollo, attorno a cui si crea una pigna (da cui pignarûl, anche se alcuni studiosi legano pignarûl al latino palea, paglia) di arbusti da bruciare, spesso materiale di scarto derivante dalla pulizia dei campi, e sormontato da una croce o da un fantoccio: la vecje, la strie, la femenate rappresenta il male, l’anno vecchio che se ne va, il caos da eliminare. Ci sono magia e aspetti religiosi, tanto che prima dell’accensione si recitano litanie (pan e vin, la grazia di Diu gjoldarin, pane e vino, la grazia di Dio godremo); c’è la gioia di mangiare insieme la pinza, una focaccia di farina di polenta e frutta secca e semi di finocchio, e di condividere il vin brulé mentre il fumo si alza nel cielo nero e si provano a fare vaticini per l’anno che verrà. Il mito, il rito e la cultura si mescolano. Il confine fra natura arcaica e precristiana è flebile o forse non c’è se dal fumo, mica da dati certi, si cerca di intravvedere il futuro: Se il fun al va a soreli jevât, / cjape su il sac e va a mercjât. / Se il fun al va a soreli a mont, / cjape su il sac e va’ pal mont (Se il fumo va a levante / prendi il sacco e vai al mercato - abbondanza -. Se il fumo va a ponente / prendi il sacco e vai per il mondo - carestia -).
Sembra un mondo remoto, lontano nel tempo e nello spazio e invece basta guardare a Oriente e raggiungere qualsiasi località del Friuli, del Goriziano e tante anche in Cadore, nella Marca Trevigiana, nel Veneziano: sono funzioni purificatrici e divinatorie dove il fuoco è il tramite per pronosticare l’avvenire e per propiziarsi lo scorrere dei giorni. Così, Franco Cardini spiega i fuochi ne I giorni del sacro (Utet): «I fuochi d’inverno, senza dubbio, in rapporto anche con il tempo solstiziale, hanno comunque una loro valenza purificatrice: aiutando il debole sole invernale, procurando luce e calore, cacciano le tenebre, le malattie e con la loro funzione lustrale aiutano il tempo buono a tornare».
La necessità di tempo buono è così grande ovunque che non c’è angolo d’Italia in cui, o la notte di Natale o di Capodanno o dell’Epifania o in corrispondenza dei solstizi o degli equinozi, non si svolga un falò. Cambiano i nomi da Nord a Sud, da Est a Ovest: resta la necessità arcana, struggente di una luce che rompa il buio, che aiuti la natura a ritrovare il ciclo della vita (spesso le ceneri dei falò sono disperse nei campi per renderli fertili). E resta la magia e la meraviglia che si prova davanti al pignarûl, come scriveva anche il poeta Enrico Fruch nel 1926: S’impiin i fûcs de Pifanie lontan / Pei ciamps, pes monz, par dut; / Còntin usgnot l’antighe storie plene / Di lûs e di ligrìe... (Si accendono lontano i fuochi dell’Epifania / Nei campi, sulle montagne, ovunque; / Raccontano stanotte l’antica storia piena / Di luce e di allegria).
Oggi, come duemila anni fa, aggrappati come i Magi alla luce che ci guida e che cerchiamo, inesausti, ogni giorno.
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