Documento CRS
Il documento CRS
Nell’ambito di un accordo globale stipulato dai Ministri delle Finanze e dai Governatori delle Banche Centrali del G20, sono stati proposti dei requisiti e delle condizioni base per l’adozione di sistemi di scambio automatico di informazioni di detenzione di ricchezze finanziarie nell’ambito di un contesto multilaterale.
Tale scambio di informazione ha come obiettivo primario la lotta all’evasione fiscale di stampo internazionale, perseguita attraverso la dislocazione di redditi in paesi meno “collaborativi” nello scambio di informazioni.
Preliminarmente, è utile sapere che il protocollo d’intesa considera utili allo scopo tutte le informazioni, da riportarsi con tempistica annuale, riferite a tutti i tipi di redditi da investimento (investment income), compresi interessi, dividendi, redditi scaturiti da contratti assicurativi ma anche saldi di conti correnti o vendite di assets finanziari.
Dalle indicazioni emergenti dal sommario riportato nel documento, sembrerebbe che oggetto della comunicazione siano tutti quei conti (generalmente intesi) che accolgono i redditi di natura finanziaria come sopra indicati, includendo in essi anche i conti detenuti da soggetti “trasparenti” quali trust o fondazioni (1).
A grandi linee, le comunicazioni sono finalizzate a veicolare le informazioni riferite ai frutti derivanti dalla detenzione di attività finanziarie (interessi, dividendi o altri redditi) o quelli conseguenti ai plusvalori originati dalla vendita di valori finanziari, quali partecipazioni o crediti di natura finanziaria.
La detenzione di attività finanziarie non produttive di interessi e/o frutti (“non- debt”) non appaiono rilevanti ai fini della normativa in oggetto
Gli steps della Due Diligence
Nel caso di acquisizione di nuovi clienti, i passaggi indicati consistono, innanzitutto, nell’individuazione se il soggetto in questione è un soggetto obbligato a tale compliance o se sussistono possibili cause di esclusione da questa, come nel caso in cui il soggetto si configuri come “Passive NFE”, definiti come quelle entità che non si configurano come “Financial Insitution” e che non rispettano le condizioni degli “Active NFE”.
Giunti a tale fase dell’analisi, il documento appare estremamente articolato, in quanto prevede 8 casistiche (2) che se verificate, anche singolarmente, determinano la presenza di un “Active NFE” e quindi di un soggetto tenuto alla compliance.
Esaminando sinteticamente le casistiche e cercando di “tradurre” le terminologie del documento nella realtà economica e regolamentare del nostro paese possiamo individuare i seguenti casi maggiormente significativi:
• Entità che trae la maggioranza (più del 50%) del proprio reddito da fonti che non siano qualificati come passive income e che hanno più del 50% del proprio attivo di bilancio non rappresentato da attivi che generano passive income. E’ evidente che un problema si porrà nella corretta definizione, al momento del recepimento del concetto nella normativa domestica, del concetto di passive income. Se, infatti, saranno considerati tali tutti quei redditi non generati da un’attività operativa ma prodotti da assets caratterizzati da facile mobilità, come, tipicamente, i redditi finanziari, possiamo avere una forte “espulsione” dalla categoria dei soggetti indicati da parte delle holding finanziarie e non solo (3);
• Entità le cui azioni sono regolarmente scambiate in un mercato regolamentato;
• Entità la cui attività consiste principalmente nella detenzione di partecipazioni, fornendo contestualmente alle partecipate anche finanziamenti e servizi, e a condizione che l’attività finanziaria, di natura speculativa, non faccia assumere alla stessa la qualifica di Investment Entity.
Tra i vari soggetti obbligati alle comunicazioni richieste sono definite le “Istituzioni di custodia” (Custodial Insitution) e le “Entità di investimento” (Investment Entity); le particolarità nell’attività svolta da tali soggetti e le loro caratteristiche soggettive le rendono assimilabili, per alcuni aspetti, alle holding.
Per questi motivi si rende necessario un adeguato approfondimento della materia, al fine di individuare, in forma più oggettiva possibile, il confine di separazione tra holding soggette e non.
Tra le varie entità soggette agli obblighi comunicativi, classificate come RFI (Reporting Financial Institution), si individuano le Custodial Institution e gli Investment Entity.
Custodial Institution
Vengono definite come quelle entità che detengono in maniera predominante attività finanziarie per conto di altre. Tale situazione si verifica quando il reddito dell’entità attribuibile alle attività finanziarie e ai correlati servizi finanziari è uguale o superiore al 20% del suo reddito lordo nel periodo di tempo minore tra i 3 anni precedenti alla verifica e quello a partire dal quale la società è stata costituita.
E’ interessante qui notare come, differentemente ad esempio dalle disposizioni emanate, seppur ancora in bozza, dalla Banca d’Italia in materia di individuazione del perimetro definitorio del gruppo finanziario, nel caso della normativa che si esamina, essa è precisamente rivolta a tutti quei servizi aventi specificatamente connotato finanziario, non coinvolgendo al contrario le società strumentali che forniscono, ad esempio, i servizi infragruppo (4).
Appare evidente come, per l’applicazione pratica della disposizione, si debba analizzare cosa intende la normativa CRS per “Financial Asset” (Attività finanziaria), dalla cui fonte, se superiore al 20% del reddito, deriva la definizione di Custodial Institution.
Qui la descrizione è moto ampia e ricomprende, in termini generali, tutti gli strumenti di scambio nell’ambito del mercato finanziario (5) o gli investimenti previsti dalla normativa italiana del Testo Unico della Finanza (TUF); la lista non include invece la liquidità pura o i depositi liquidi.
Anche qui potrebbe sorgere un disallineamento con le regole domestiche; infatti, nonostante non vi sia espressamente una definizione precisa di attività finanziaria, questa dovrebbe intendersi, come attività diretta a porre in essere operazioni che inizino e terminino con il denaro, indipendentemente dalla specifica natura giuridica, e connessione, dei singoli atti o negozi che possano giuridicamente puntualizzare tali operazioni.
Investment Entity
Tali soggetti vengono definiti sulla base due possibili criteri distintivi:
- la tipologia di attività esercitata per proprio conto o per conto di un cliente che potrà alternativamente consistere in: attività di trading in attività monetarie o di cambi, gestione di portafoglio individuale o collettivo, attività di gestione o amministrazione di attività finanziarie. Un criterio, quindi, che potrà denominarsi “nominale”, connesso cioè alla tipologia di attività che viene esercitata;
- la formazione essenziale del proprio reddito attribuibile principalmente all’attività di investimento, reinvestimento o trading; e ciò si intende verificato se il reddito attribuibile all’attività di cui sopra è almeno pari al 50% del reddito conseguito nel triennio precedente all’analisi.
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(1) Si veda punto 27 del Documento “Standard for Automatic Exchange of Financial Account Information” – “Common Reporting Standard” – OECD.
(2) I casi sono riportati alla Section VIII, punto B, numero 9 del Documento OCSE.
(3) Si pensi, ad esempio, alle holding detentrici di marchi.
(4) Nell’ambito della definizione del gruppo finanziario, contenuta nelle Disposizioni di Vigilanza per gli Intermediari Finanziari, infatti, ai fini del calcolo del requisito della “finanziarietà” del gruppo, “le società strumentali sono assimilate a quelle esercenti attività finanziarie”.
(5) Come, ad esempio, i titoli partecipativi o di debito, i contratti di swap, i contratti di assicurazione, ecc…
Legge Stabilità 2015
Disegno di Legge “Stabilità 2015” – Disposizione agevolativa “patent box”
Nel Disegno di Legge c.d. “Stabilità 2015”, recentemente approvato dal Governo, e che ha cominciato l’iter parlamentare di conversione in Legge, è prevista una disposizione potenzialmente agevolativa (1) che dovrebbe interessare i soggetti detentori di assets di natura intellettuale (vedi marchi, brevetti, know-how, ecc…) localizzati all’estero al fine di ricondurli nell’ambito del nostro paese.
La disposizione (2) vuole infatti perseguire un triplice obiettivo:
• attirare i beni immateriali collocati all’estero;
• incentivare il mantenimento in Italia;
• favorire l’investimento in attività di ricerca e sviluppo.
L’ambito oggettivo di applicazione può individuarsi in tutte le opere dell’ingegno, nei brevetti industriali, nei marchi d’impresa funzionalmente equivalenti ai brevetti, nonché nei processi, nelle formule ed informazioni relativi ad esperienza acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico, giuridicamente tutelabili.
Non appare come condizione indispensabile la registrazione del bene immateriale, anche se appare chiaro che la stessa potrebbe evitare eventuali contestazioni circa l’esistenza del requisito soggettivo per l’applicazione della regola.
Peculiare appare la caratteristica che dovrebbero avere i marchi ai fini dell’agevolazione suddetta. Infatti i marchi di impresa si intendono funzionalmente equivalenti ai brevetti quando il loro mantenimento, accrescimento o sviluppo richiede il sostenimento di spese per attività di ricerca e sviluppo. Vengono al contrario esclusi dalla norma i marchi esclusivamente commerciali (3).
Un aspetto che dovrà necessariamente essere chiarito concerne l’utilizzo del termine, tra i vari beni oggetto dell’agevolazione, “opere dell’ingegno”, che sembrerebbe ricomprendere tutti i beni tutelati dalla legge sul diritto d’autore, comprese, per esempio, le opere d’arte o le creazioni letterarie.
Anche nella Relazione Illustrativa si riprendono i concetti delle opere dell’ingegno ma queste sembrerebbero inserite in un contesto di intangible assets collegabili ad attività aventi connotati e funzionalità industriali ed aziendali; alcuni commentatori hanno espresso indicazioni positive circa l’individuazione di un possibile bene oggetto dell’agevolazione, ad esempio, nelle banche dati di natura commerciali dove, però, ci sarebbe da individuare il collegamento con la caratteristica dell’ingegno insita nell’opera.
L’agevolazione può interessare tutti i titolari di redditi d’impresa, a prescindere dalla forma giuridica, dalle dimensioni e dal regime contabile, compresi anche i trust, che risiedono in Paesi con i quali vige un accordo per evitare la doppia imposizione e con i quali lo scambio di informazioni è effettivo; essa consiste in un’opzione che può essere esercitata (4) in base al quale concorrono, successivamente al trasferimento in Italia, alla formazione del reddito complessivo, nella misura del 50% del relativo ammontare, i redditi derivanti e scaturiti dalle suddette immobilizzazioni immateriali.
Tale regime è previsto sia per i redditi derivanti dalla concessione in uso a terzi dei beni immateriali che per l’ipotesi di utilizzo diretto degli stessi, al fine di non discriminare i differenti veicoli impiegati per la gestione di tale tipologia di asset.
La percentuale di esclusione dalla formazione del reddito sopra indicata viene poi ridotta nella misura del 30% per il 2015 e del 40% per il 2016.
Alla sopradescritta regola che, a parte alcuni dubbi applicativi, appare abbastanza lineare, seguono delle ulteriori condizioni alquanto oscure e che, inevitabilmente, richiederanno necessari approfondimenti e chiarimenti ufficiali.
Viene infatti indicato che, qualora i suddetti beni siano utilizzati direttamente, la predetta esclusione dal reddito si determina a condizione che il relativo contributo economico alla produzione sia determinato in base ad un apposito accordo di ruling avente ad oggetto i componenti positivi di reddito impliciti ed i criteri per l’individuazione dei componenti negativi riferibili ai predetti componenti positivi.
Nonostante il non felice impiego del termine “contributo economico”, questa indicazione sembrerebbe riferita alla situazione in cui, detenendo l’asset, sussiste una presunzione di produzione del reddito in capo al detentore, alla stregua delle attuali regole in materia di percentuali presuntive di reddito concernenti le società di comodo.
L’importo corrispondente al contributo economico che i predetti beni immateriali apportano al conto economico dovrebbe quindi essere oggetto di un accordo specifico di ruling.
L’aspetto sopra descritto dovrà essere attentamente disciplinato perché in effetti, dal tenore della norma, non si comprende se le norme che fissano il livello di ricavi che vengono prodotti al conto economico “sorpassino” quelle delle società di comodo oppure vi sia una commistione tra le due regole.
Tale aspetto da chiarire appare estremamente importante al fine di comprendere l’appeal della novità, in quanto, come noto, la percentuale di redditività presuntiva per i beni immateriali è attualmente molto pesante, fissata nella misura del 15%. Si tratta quindi di capire se la riduzione al 50% del reddito conseguito si determina applicandosi a tale livello di ricavi o al risultato che si ottiene in seguito all’accordo (ruling) con l’Amministrazione finanziaria.
Tra l’atro dovrebbero essere chiarite tutte le possibili conseguenze derivanti dal non adeguamento ai ricavi presuntivi scaturiti dalle società di comodo, quali, ad esempio, la non riportabilità del credito Iva.
In tal senso, secondo Assoholding, un elemento di forte incentivo connesso con il regime del patent box dovrebbe essere collegato al fatto che la determinazione di un reddito, da tassare al 50%, successivo ad un accordo preventivo con l’Amministrazione Finanziaria, dovrebbe a priori eliminare completamente, ed in tutti i suoi aspetti, la normativa sulle società di comodo, costituendo a livello normativo una fattispecie esonerata integralmente dalla normativa in oggetto.
Questo consentirebbe di effettuare delle decisioni su investimenti anche importanti, considerato, ad esempio, operazioni complesse che comportino il rimpatrio di assets importanti nel nostro paese per i quali, già al momento di partenza, venga consentito inequivocabilmente di conoscere il “prezzo” fiscale dell’operazione, evitando dannose conseguenze nel corso dell’operazione, generate dalla normativa delle società di comodo.
Non possono essere altresì ignorate, nell’ambito della complessiva gestione di un’operazione di rimpatrio del marchio, le conseguenze riguardanti gli aspetti Iva conseguenti alla transazione in questione; evidentemente una cessione del marchio, configurabile come prestazioni di servizi, sarebbe fortemente gravata dall’onere Iva che ne limiterebbe sensibilmente la convenienza economica.
Ciò porterebbe a dover perlustrare altre vie di passaggi del bene, quali, fra tutte, il conferimento, generando quindi la successiva necessità di dover gestire una nuova holding estera detentrice della partecipata italiana neo-detentrice del marchio.
Le breve considerazioni sopra esposte sintetizzano una valutazione di tipo generale; ben vengano disposizioni analoghe che cercano di favorire operazioni di rimpatrio, con alleggerimenti di tipo fiscale. Tuttavia, considerato che la detenzione degli assets immateriali, mediante le connesse holdings hanno da sempre incontrato forti penalizzazioni in diverse regole tributarie, queste regole che dovrebbero facilitare il trasferimento dei beni devono poi inquadrarsi nell’insieme delle regole complessive previste e, perciò, appare meno scontata verificare la convenienza della nuova regola introdotta.
Altro elemento fondamentale che necessiterà di chiarimento riguarda la quota di reddito riducibile al 50%. Nel proseguo della stesura della disposizione della norma, infatti, viene previsto che la quota di reddito oggetto di agevolazione, è definita in base al rapporto tra i costi di attività di ricerca e sviluppo sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene immateriale ed i costi complessivi sostenuti per produrre tale bene.
Ciò significa che la detassazione “secca” del 50% del reddito, sia ai fini Ires che Irap, si potrà verificare nel caso in cui tutti i costi di produzione del bene sono costituiti da spese per attività di ricerca e sviluppo; negli altri casi, evidentemente, la quota del 50% si applicherà su un rapporto inferiore.
La precisa definizione degli elementi di tale rapporto saranno oggetto di individuazione da parte del consueto Decreto Ministeriale di natura applicativa.
Da segnalare anche la condizione di “ingresso” dell’agevolazione in esame, rappresentata dalla condizione che i soggetti svolgano le attività di ricerca e sviluppo, anche mediante contratti di ricerca stipulati con Università o enti di ricerca ed organismi equiparati, finalizzati alla produzione dei beni immateriali oggetto del regime agevolato
Il regime opzionale si interessa inoltre dell’eventuale successivo momento di dismissione dell’asset riportato in Italia. E’ prevista quindi l’esclusione dalla formazione del reddito delle plusvalenze derivanti dalla cessione dei beni immateriali indicati a condizione che il reimpiego dei corrispettivi derivanti dalla cessione in investimenti similari sia almeno pari al 90% del corrispettivo derivanti dalla cessione in investimenti similari o che almeno il 90% del corrispettivo derivante dalla cessione dei prodotti sia reinvestito, prima della chiusura del secondo periodo di imposta successivo quello della cessione sia reinvestito, nella manutenzione o nello sviluppo di altri beni immateriali della stessa tipologia di quelli individuati.
La procedura di ruling deve applicarsi in ogni caso, al fine di individuare l’importo agevolabile nel caso di redditi realizzati nell’ambito di operazioni intercorse tra società dello stesso gruppo.
Da ultimo, nella Relazione illustrativa, sono state riportate le principali caratteristiche dei regimi analoghi applicate nei principali paesi Europei; di prima evidenza emerge che in alcuni di questi paesi la tassazione effettiva di questi assets è estremamente bassa (5) e ciò difficilmente porterà a spostare tali beni da questi paesi che, tra l’altro, sono quelli dove, per tradizione culturale ed ambiente socio-giuridico, sono generalmente collocate le holding detentrici (6).
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(1) All’articolo 7, comma 2.
(2) Come si evince dalla Relazione Illustrativa.
(3) Un successivo Decreto Ministeriale individuerà le tipologie di marchi esclusi dall’ambito dei beni immateriali eleggibili.
(4) Definita patent box.
(5) Ad esempio, il Belgio dove la tassazione effettiva è variabile tra 0 e 6,8%.
(6) Si veda fra tutte l’Olanda, dove a una tassazione effettiva del 5% si accompagna una legislazione estremamente semplice e favorevole a questo tipo di beni.
Voluntary disclosure e ravvedimento
Voluntary disclosure e ravvedimento: confrontabilità delle proposte
L’allungamento e l’allargamento delle regole sul ravvedimento operoso, previste dal Disegno di Legge “Stabilità” 2015 (1), e destinate ad entrare in vigore dall’anno prossimo sono destinate, inevitabilmente, ad essere analizzate e valutate anche rispetto alla disciplina della “costruenda” voluntary disclosure (2) che costituisce una forma di procedura di collaborazione volontaria del contribuente con l’Amministrazione Fiscale per l’emersione ed il rientro in Italia di capitali ed attività detenute all’estero.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che il quadro complessivo degli strumenti a disposizione si inserisce in un contesto di più ampio respiro internazionale, nel quale un ruolo sempre più significativo viene assegnato allo scambio automatico di informazioni fra le autorità fiscali dei vari Paesi.
A tale riguardo si sottolinea come, a livello Europeo, mediante la Direttiva 2011/16/UE, le Autorità competenti di ciascuno Stato membro comunicano a quelle degli altri Stati membri, mediante scambio automatico, le informazioni disponibili e riguardanti i soggetti residenti in altro Stato membro che dispongono di determinate categorie di reddito (in special modo quelli di capitale); a ciò si aggiunge, a livello internazionale, che l’accordo FATCA firmato tra Italia e USA, consentirà a breve lo scambio automatico di informazioni di natura finanziaria tra le autorità fiscali dei due Paesi e quello, sempre più probabile, tra Italia e Svizzera in materia di scambio di informazioni di natura fiscale.
La “potenza” esplosiva di queste informazioni condivise a livello internazionale farà sicuramente porre un’attenzione particolare a questi istituti in tale momento storico.
Nonostante nessuno dei due strumenti (ravvedimento e disclosure) sia ancora formalmente attivabile (gli strumenti giuridici non sono al momento perfezionati giuridicamente), un confronto di pre-analisi è comunque azionabile, alla luce delle differenze di metodo ed alle diverse finalità che stanno emergendo.
Il primo aspetto concerne il perimetro applicativo; il ravvedimento concerne singole ed individuabili violazioni ed è di natura spontanea, non prevedendo il coinvolgimento dell’Amministrazione Finanziaria: sarà sufficiente quindi versare la sanzione ridotta, calcolata in autonomia dal contribuente e senza comunicazioni o istanze da comunicare. Appare quindi evidente che deve trattarsi di fattispecie ben conosciute dal contribuente e di cui lo stesso ha la disponibilità completa di tutti i dati ed i documenti necessari.
La voluntary disclosure si attiva invece mediante una comunicazione da inviare all’Agenzia delle Entrate e riguarda l’intera posizione del contribuente concernente le attività di natura finanziaria costituiti o detenuti all’estero e che fa avviare pertanto un monitoraggio in contradditorio con l’Amministrazione e che dà la possibilità di sanare tutte le violazioni commesse per tutti gli anni fiscali ancora aperti all’accertamento.
Il rapporto si basa pertanto su uno scambio di informazioni tra contribuente ed Amministrazione, concernenti redditi omessi al momento di costituzione, di detenzione e di eventuale dismissione dell’investimento detenuto all’estero.
In certi casi, ci si riferisce agli investimenti localizzati nei paesi con i quali è più agevole lo scambio di informazioni, questi dati potranno scambiarsi con le informazioni presenti nelle oramai numerose banche dati a disposizione dell’Amministrazione.
Lo strumento sarà presumibilmente impiegato per situazioni complesse, di cui il contribuente difficilmente conserva traccia o in quei casi in cui possa “convenire” affidarsi alle informazioni e ai dati di cui l’Amministrazione Finanziaria ha la disponibilità.
E’ evidente che tale cornice si riferirà, ad esempio, a tutti quei casi nei quali è necessario ricostruire una fattispecie reddituale da assoggettare a tassazione, utilizzando anche elementi informativi e documentali in possesso dell’Amministrazione (si vedano estratti conto, documenti di prelievi e versamenti, prove per formazione provvista all’estero). In tali situazioni potranno eventualmente anche essere prodotti e forniti documenti attestanti le attività finanziarie e gli investimenti costituiti o detenuti all’estero in possesso del contribuente e che potrebbero anche ridurre la pretesa dell’Erario come, ad esempio, certificati di imposte pagate all’estero o documenti attestanti minusvalenze o perdite.
Successivamente al contradditorio, l’Agenzia delle Entrate emetterà un avviso di liquidazione delle imposte e delle sanzioni conseguenti alla violazione che, arrivati a questo punto e presupponendo un tacito accoglimento del contribuente, sarà molto arduo poter controbattere, dovendo dare per scontata la veridicità degli elementi in possesso dell’Agenzia, desunti dalle banche dati ufficiali a disposizione.
Dovrà poi essere chiarito se, ai fini dell’indicazione delle attività detenute all’estero, da indicare nella richiesta di adesione, occorra adottare un criterio di calcolo analitico o presuntivo.
Considerate le sensibili criticità nell’adozione della collaborazione de quo, sarebbe opportuno prevedere una sorta di pre-analisi, valutando quindi la correttezza e la validità dei dati a disposizione dell’Amministrazione Finanziaria e consentendo così di confrontare questi documenti con quelli a disposizione dell’interessato.
Passaggio delicato questo in quanto, in certi casi, potrebbe non essere così facile ottenere da intermediari finanziari non residenti, magari localizzati in paesi lontani e non particolarmente attrezzati, documenti riferiti ad annualità distanti nel tempo e di cui l’intermediario non è più in possesso.
Tenuto conto della delicatezza che assumeranno i documenti nell’ambito della procedura, è stato inoltre introdotto una nuova fattispecie di reato fiscale che punisce coloro i quali nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria, esibiscano o trasmettano documentazione o dati non rispondenti al vero.
La caratteristica dell’accordo collaborativo della disclosure evidenzia come trattasi di una procedura trasparente, nell’ambito della quale non è possibile mantenere l’anonimato (come il precedente scudo fiscale) o la facoltà di “regolarizzare” le attività detenute all’estero.
Con la voluntary disclosure potranno essere sanate violazioni tipiche dei contribuenti persone fisiche, quali l’omessa o carente compilazione del quadro RW in materia di monitoraggio fiscale o anche violazioni di natura più sostanziale e pesanti, quali gli omessi versamenti delle imposte legate ai redditi di natura estera anche riferiti ad entità giuridiche commesse, allo stato attuale della norma, fino al 30 settembre 2014, con possibilità di esperire la procedura sino al 30 settembre 2015.
Ed infatti, nell’ambito delle più recenti modifiche introdotte nel Disegno di Legge, la procedura viene estesa ai titolari di redditi d’impresa non individuali, quali società di capitali, società di persone o enti commerciali.
Questa estensione consente di procedere in parallelo, nel caso di persone fisiche che regolarizzano la propria posizione come soci di entità giuridiche, con la regolarizzazione del reddito in capo alla società che, diversamente, risulterebbe “scoperta” dalla regolarizzazione del contribuente persona fisica.
Come detto, il ravvedimento appare invece, al di là della valutazione monetaria del costo, maggiormente “tagliato” per violazione specifiche, ben individuate, facilmente calcolabili che il contribuente sarà in grado di calcolare autonomamente senza possibilità di errore.
Il forte “spartiacque” dell’utilizzabilità dei due strumenti è comunque rappresentato dalle conseguenze degli effetti in termini penali. Il costo della disclosure consente di acquisire il titolo per fruire della causa di esclusione della punibilità dei reati fiscali penali relativi agli obblighi dichiarativi (3) tra cui la riduzione a metà delle pene ed il pagamento delle sanzioni tributarie in misura ridotta e la non applicazione dell’ormai imminente introduzione nel nostro ordinamento del reato di autoriciclaggio.
Dinanzi infatti a possibili contestazioni di movimentazioni di attivi esteri, qualificabili come profitti di reati tributari, se effettuati in modo da dissimularne l’origine (anche in caso di reimpiego in attività economiche o finanziarie) e quindi perseguibili a titolo di autoriciclaggio, l’utilizzo dell’istituto del ravvedimento non risulta efficace.
Passaggio delicato è invece rappresentato dall’applicazione delle sanzioni e dei presidi previsti dalla normativa antiriciclaggio che sembrerebbe (4) comunque applicabile, indipendente dall’adozione della disclosure.
Con riferimento alla tempistica di intervento si precisa anche che, in pendenza di attività di controllo o di accertamento o di eventuali conseguenti procedimenti penali, la disclosure è preclusa, mentre il ravvedimento, grazie alle future modifiche, può sanare anche con accessi, ispezioni e verifiche in corso (o già eseguiti), a patto che non siano stati emessi atti di liquidazione o di accertamenti.
In aggiunta a quanto sopra descritto si fa presente che la disclosure, essendo sostanzialmente costituita da un accordo di collaborazione e quindi basandosi su un invito al contradditorio, consente di usufruire degli sconti in materia di sanzioni basate sugli accertamenti con adesione.
La procedura di collaborazione consente inoltre al contribuente di versare in tre rate mensili di pari importo gli importi dovuti, mentre tale opzione pare, allo stato attuale della norma, non consentita per il ravvedimento, anche se questo debito, essendo veicolato nel modello F24, potrà essere compensato con eventuali crediti disponibili.
Riguardo all’estensione temporale dei due strumenti, la Legge di Stabilità 2015 ha “allineato” l’applicabilità, consentendo di attivarsi per tutti i periodi d’imposta per i quali sono ancora aperti i termini per l’accertamento o per la contestazione delle violazioni in materia di monitoraggio fiscale.
Nel caso del ravvedimento la misura della sanzione sarà logicamente proporzionale delle entità del trattamento premiale alla rapidità della regolarizzazione.
Il Disegno di Legge prevede infatti delle sanzioni ridotte graduate in base alla data in cui viene invocata la regolarizzazione.
Nello specifico, oltre alle riduzioni attualmente vigenti, viene stabilito che la sanzione è ridotta ad un nono del minimo, in caso di regolarizzazione entro il 90esimo giorno successivo al termine per la presentazione della dichiarazione, ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro 90 giorni dall’omissione o dall’errore.
Ad un settimo del minimo, in caso di regolarizzazione entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello del corso del quale è stata commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro due anni dall’omissione o dall’errore.
Ad un sesto del minimo, in caso di regolarizzazione oltre il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello del corso del quale è stata commessa la violazione ovvero oltre due anni dall’omissione o dall’errore.
Sull’altro lato, l’istanza di collaborazione collaborativa abbraccerà tutti i periodi d’imposta per i quali non è ancora scaduto il termine per l’accertamento, alla data di presentazione dell’istanza, ai sensi delle disposizioni previste dall’articolo 43 del Dpr n. 600/73.
Attenzione infine viene richiesta nel caso di regolarizzazione di reati tributari ed attività finanziarie detenute in paesi black-list, collocati in paradisi fiscali, o in caso di infedele dichiarazione (ad esempio nel caso di falsa fatturazione) o di omessa dichiarazione che superano le soglie di rilevanza penale, per i quali i termini di decadenza degli accertamenti vanno raddoppiati.
Per esempio, ad oggi, risulteranno prescritte definitivamente, anche in caso di raddoppio dei termini, i periodi d’imposta 2004 (nel caso di dichiarazione infedele) e quello 2002 (nel caso di dichiarazione omessa).
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(1) Si veda l’articolo 44.
(2) Il cui Disegno di Legge A.C. n. 2247 è stato approvato alla Camera ed è in esame al Senato.
(3) Trattasi dei reati previsti dagli articoli 2, 3, 4, 5 10-bis e 10-ter del DLgs n. 74/2000.
(4) Alla luce di un chiarimento del Dipartimento del Tesoro e del MEF, emanate il 31.1.2014.
Exit tax e holding
Exit tax e holding: l’applicabilità dell’art. 166 TUIR
L’art. 166 del TUIR prevede che “il trasferimento all'estero della residenza dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell'azienda o del complesso aziendale, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato (…)”.
I successivi commi 2 e 2-bis regolano il trattamento fiscale degli eventuali fondi in sospensione d'imposta, inclusi quelli tassabili in caso di distribuzione, iscritti nell'ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza, e delle perdite generatesi fino al periodo d'imposta anteriore a quello da cui ha effetto il trasferimento all'estero della residenza fiscale.
Com’è noto, la ratio alla base della disposizione in commento è quella di tutela dell’interesse erariale alla sottoposizione a tassazione e conseguente riscossione:
- dei plusvalori latenti, non realizzati, ma legati a beni componenti il complesso aziendale trasferito unitamente alla sede della società;
- delle plusvalenze relative alle stabili organizzazioni estere che fanno capo alla società che procede al trasferimento;
- dei fondi in sospensione d’imposta;
- dei plusvalori latenti che, pur confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio italiano siano successivamente trasferiti all’estero dalla società che ha già spostato la propria residenza in altro stato UE.
La norma in commento è stata recentemente oggetto di modifica ad opera dell’articolo 91 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, con l’inserimento nell’articolo 166 del Tuir dei due nuovi commi 2-quater e 2-quinquies.
Nello specifico, il nuovo comma 2-quater attribuisce ai soggetti esercenti attività d’impresa che trasferiscono la residenza fiscale dal territorio nazionale successivamente alla data del 24 gennaio 2012 (articolo 91, comma 2, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1):
- a uno Stato membro dell’Unione Europea oppure a uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo rientrante nella white list emanata ai sensi dell’articolo 168-bis del Tuir,
- con il quale l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari,
la possibilità di differire l’effettivo prelievo dell’imposta italiana sulle plusvalenze latenti negli elementi patrimoniali dell’impresa trasferita, non confluiti in una stabile organizzazione in Italia, al momento del loro effettivo realizzo, in conformità ai principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 29 novembre 2011 C-371/10, causa “National Grid Indus BV.
La sospensione del prelievo dell’imposta sui plusvalori patrimoniali, maturati e non ancora realizzati fino al momento del loro effettivo realizzo, rappresenta un regime opzionale (alternativo al regime ordinario della tassazione immediata al momento del trasferimento della residenza dell’impresa) introdotto dal Legislatore italiano a fronte della procedura di infrazione n. 2010/4141, avviata dalla Commissione europea a seguito della denuncia presentata nel marzo 2009 dalla Commissione per l’esame della compatibilità comunitaria di norme e prassi tributarie italiane (organo dell’Associazione italiana Dottori Commercialisti).
In buona sostanza la disposizione in commento (ante modifica) è stata ritenuta in contrasto con i principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 29 novembre 2011 C-371/10 e, in particolare, con il diritto alla libertà di stabilimento affermato dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
L’Associazione Italiana Dottori Commercialisti, con riferimento all’applicazione del previgente articolo 166 del Tuir, aveva infatti eccepito che “a parità di condizioni [...], il soggetto italiano esercente attività d’impresa che decida di trasferire all’estero la propria residenza fiscale, rispetto al soggetto che decida di mantenere la propria residenza fiscale in Italia, si trova a dover affrontare le seguenti conseguenze:
• pagare le imposte sulle plusvalenze latenti negli assets aziendali determinate sulla base del valore normale;
• pagare le imposte sui fondi in sospensione d’imposta;
• vedere azzerate le perdite pregresse non compensate”.
Appare quindi palese l’assoluta pregiudizialità del trattamento fiscale originariamente previsto, peraltro incompatibile con il diritto alla libertà di stabilimento garantito dal Trattato CE”.
Le modifiche apportate dal Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, tradottesi nell’introduzione del comma 2-quater, sono ispirate ai seguenti principi:
- è legittima la previsione da parte dello Stato membro di provenienza di una exit tax sulle plusvalenze latenti negli elementi patrimoniali dell’impresa che trasferisce la residenza da uno Stato membro UE ad un altro (in linea peraltro con le previsioni del modello OCSE);
- lo Stato membro di provenienza deve differire l’effettivo prelievo dell’imposta sulle plusvalenze latenti al momento del realizzo (tramite cessione o eliminazione dal processo produttivo) degli elementi patrimoniali dell’impresa nello Stato membro di destinazione;
- nella determinazione dell’imponibile tassabile delle plusvalenze latenti, corrispondente alla differenza fra il valore normale degli elementi patrimoniali dell’impresa alla data del trasferimento e il loro costo fiscalmente riconosciuto, lo Stato membro di provenienza può non tener conto, in diminuzione dall’imponibile, delle eventuali minusvalenze maturate successivamente al trasferimento dell’impresa;
- il valore fiscalmente riconosciuto degli elementi patrimoniali dell’impresa è quello “normale” alla data del trasferimento;
- in caso di successivo realizzo sono tassabili solo i maggiori valori eventualmente prodotti;
- il realizzo o il mancato realizzo degli stessi ai fini dell’assoggettamento a tassazione dei relativi plusvalori, vanno verificati dallo Stato membro di provenienza attraverso informazioni acquisite dallo Stato membro di destinazione tramite le procedure di assistenza reciproca in materia di recupero dei crediti per imposte, previste dall’articolo 4, numero 1, della direttiva del Consiglio europeo del 26 maggio 2008, 2008/55/Ce.
L’articolo 166, comma 2-quinquies, del Tuir, nel demandare all’emanazione di un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di natura non regolamentare, l’adozione delle disposizione attuative della nuova disciplina contenuta nel comma 2-quater, ha ricevuto il dovuto seguito con il DM 2 agosto 2013 che contiene norme finalizzate a chiarire - in termini applicativi - i principi di cui in precedenza.
Quanto al presupposto impositivo, in aderenza alla tesi prospettata da ASSONIME, esso si verifica nel momento in cui ricorrono congiuntamente il trasferimento di sede e la perdita della residenza in base ai presupposti individuati dall’articolo 73, comma 3, del Tuir.
In proposito, si registra (e si condivide) recente posizione dottrinale che analizza alcune questioni interpretative con riguardo alle società holding di partecipazioni.
Più specificamente, se, da un lato, non pare porsi problema per le c.d. holding dinamiche, in quanto esercenti attività di direzione e coordinamento effettiva nei confronti delle proprie partecipate, dall’altro, le holding statiche sembrano presentare delle criticità peculiari.
In buona sostanza, il trasferimento di sede di una holding senza mantenimento di una stabile organizzazione in Italia potrebbe escludere i benefici fiscali legati alla percentuale di esenzione da imposta sulle plusvalenze realizzate in applicazione della pex.
Ciò in ragione del fatto che un’eventuale stabile organizzazione in Italia di una holding statica pare, in prima battuta, una scelta priva di valide ragioni economiche, essendo concreto il rischio di mancanza di connessione economico-sostanziale a prescindere dal mero collegamento contabile.
In secundis, si registra anche la posizione in tal senso dell’Agenzia delle Entrate (CM 6/E/2006) che vede come “unitaria” la plusvalenza da realizzo susseguente il trasferimento della sede all’estero, non suscettibile quindi di autonoma valutazione delle singole partecipazioni “trasferite” insieme alla sede.
Ed infine, qualora non si “lasciasse” una stabile organizzazione a seguito del trasferimento, l’accesso ai benefici della pex potrebbe essere comunque pregiudicato dalla perdita della legittimazione a godere del trattamento premiale per sopravvenuta mancanza del requisito soggettivo.
Costi ricerca e sviluppo
Costi di ricerca e sviluppo: un investimento proficuo per il comparto holding
Con la conversione in legge del decreto Destinazione Italia (L.21 febbraio 2014 n. 9) diventa formalmente operativo anche il nuovo credito d'imposta per le attività di ricerca e sviluppo.
Possono usufruire dell’intervento i titolari di redditi d'impresa con un fatturato annuo inferiore a 500 milioni di euro, indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato.
Tra questi, figurano anche i consorzi e le reti di impresa impegnati in attività di ricerca, sviluppo e innovazione.
L'incentivo è riconosciuto nella misura del 50% degli incrementi annuali di spesa nelle attività di ricerca e sviluppo, registrati in ciascuno dei periodi d'imposta, a condizione che siano sostenute spese almeno pari a 50 mila euro in ciascun periodo.
Oggetto del trattamento premiale sono i lavori sperimentali o teorici per l'acquisizione di nuove conoscenze fino alla produzione e collaudo di prodotti, processi e servizi, a condizione che non siano impiegati o trasformati in vista di applicazioni industriali o per finalità commerciali.
Le considerazioni che precedono già forniscono un primo elemento di analisi da valutare positivamente con riferimento al comparto holding, non essendo alcuna preclusione soggettiva prevista dalla norma in ragione dell’attività e della forma giuridica del beneficiario che investe in ricerca e sviluppo.
Altro punto che merita un separato rilievo è l’oggetto cui è diretta l’attività di ricerca e sviluppo premiabile e cioè - in un contesto caro alle parent companies poste a capo di un gruppo economico - i processi e i servizi. Ciò a dire che tali possono considerarsi anche eventuali elementi innovativi che vanno a migliorare sensibilmente i flussi di attività da e verso le partecipate.
Più specificamente, in un contesto sempre più orientato verso il riconoscimento (ancorchè solo giurisprudenziale) del transfer pricing interno, un investimento in ricerca e sviluppo volto a dare sostanza e contenuto - in termini di processo e servizio entrambi innovativi - ai vari management agreements e/o service agreements tra holding e partecipate consentirebbe di ridurre il rischio di censure mosse dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento.
Se si tiene in debito conto anche il fatto che tale attività di ricerca e sviluppo può essere demandata ad un’Università il beneficio in commento assume un ulteriore e pregnante significato e cioè acquisisce una certificazione istituzionale che, oltre alle finalità descritte al capoverso che precede, attribuisce alla ricerca medesima un valore economico assolutamente apprezzabile anche in termini di patrimonializzazione della holding, costituendo infatti un costo capitalizzabile in bilancio.
Sul fronte delle caratteristiche operative e funzionali di tale istituto premiale, si rammenta che:
- il credito d'imposta riconosciuto non concorre alla formazione del reddito, né della base imponibile dell'imposta regionale sulle attività produttive.
- l’agevolazione passa da tre a cinque anni (2015-2019), con l’effetto pratico di diminuire - da una parte - la somma erogata annualmente ma aumentando - dall’altra - il periodo in cui viene riconosciuta;
- l’investimento minimo è di 30mila euro annui a fronte degli originari 50mila.
- commerciale finale e il suo costo di fabbricazione è troppo elevato per poterlo usare soltanto a fini di dimostrazione e di convalida.
Quanto alle spese ammesse, di sicuro interesse per le holding, esse hanno ad oggetto quelle sostenute:
- per l’impiego di personale altamente qualificato nelle attività di ricerca e sviluppo, in possesso di un titolo di dottore di ricerca, ovvero iscritto ad un ciclo di dottorato presso un’università italiana o estera, ovvero in possesso di laurea magistrale in discipline di ambito tecnico o scientifico come da classificazione Unesco Isced (International Standard Classification of Education) nella misura del 50% dell’importo;
- a titolo di compenso corrisposto per contratti di ricerca stipulati con università, enti di ricerca ed organismi equiparati, e con altre imprese comprese le start-up innovative di cui all’articolo 25 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221: anche per queste spese, il credito d’imposta è ammesso nella misura del 50%.
Cessione crediti Pa
La cessione dei crediti certificati vantati nei confronti della Pa la cui cessione è assistita da garanzia dello Stato
In base al comma 1 dell'articolo 37 del Dl 66/2014 i debiti commerciali di parte corrente vantati nei confronti delle Pa diverse dallo Stato, maturati al 31 dicembre 2013 e per i quali il creditore abbia presentato istanza di certificazione entro il 31 ottobre 2014 sono assistiti dalla garanzia dello Stato dall'effettuazione delle operazioni di cessione pro soluto a banche e intermediari abilitati.
Le Amministrazioni pubbliche debitrici sono tutte quelle di cui al D.Lgs. n. 165/2001, ad eccezione di Enti locali commissariati, Enti del Servizio sanitario nazionale delle Regioni sottoposte a piano di rientro dai disavanzi sanitari.
E' previsto altresì che la medesima garanzia dello Stato in ipotesi di cessione si applichi ai debiti non certificati a condizione che:
- i creditori abbiano presentato istanza di certificazione entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione e cioè entro il 31 ottobre 2014;
- i crediti siano oggetto di certificazione, tramite la piattaforma elettronica, da parte delle PA debitrici, entro 30 giorni dalla data di ricezione dell'istanza.
I soggetti creditori possono cedere pro-soluto il credito certificato e assistito dalla garanzia dello Stato ad una banca o ad un intermediario finanziario, anche sulla base di apposite convenzioni quadro.