Patent Box
La detassazione dei redditi derivanti da beni immateriali ("Patent Box") - Le modifiche apportate dal DL "Investment compact"
Proseguendo nell’approfondimento della materia, già precedentemente affrontata nella Circolare dell’associazione n 3 del Novembre 2014, si intendono integrare alcune considerazioni, con particolare riferimento al perimetro oggettivo dell’agevolazione, anche tenuto conto del potenziale interesse che la norma potrebbe avere per le holding companies e facendo luce soprattutto con le ulteriori modifiche introdotte dal recente Decreto Legge denominato “Investiment Compact”.
Si ricorda quindi che la Legge di Stabilita 2015 (1) ha introdotto un regime opzionale di tassazione agevolata per i redditi derivanti dall’utilizzazione o dalla concessione in uso di alcune tipologie di beni immateriali, sul modello di quanto già previsto nei principali Stati europei.
Sinteticamente, l’ambito oggettivo di riferimento è rappresentato dai redditi derivanti dall’utilizzo di:
- opere dell’ingegno;
- brevetti industriali;
- marchi d’impresa funzionalmente equivalenti ai brevetti;
- processi, formule ed informazioni relative ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili.
Nonostante l’elenco che nominalmente individua i beni, l’attuale formulazione letterale della norma solleva alcuni dubbi interpretativi soprattutto perché tratta di beni immateriali spesso dai confini piuttosto labili.
Con riferimento innanzitutto alle “opere dell’ingegno” appare evidente una divergenza tra i riferimenti normativi inseriti nel testo e la motivazione economica di base della nascita della disciplina del “patent box”.
Ed infatti la norma rimanda alla Legge n. 633/41 in materia di diritto d’autore che, come noto, individua principalmente le creazioni dell’intelletto umano nell’ambito delle arti musicali, letterarie, del disegno, ecc..
Sulla base di questa iniziale valutazione sembrerebbe che i primari redditi agevolabili siano quelli derivanti dallo sfruttamento di tali opere artistiche, attività tipica delle cosiddette “royalty companies” che hanno come attività principale o esclusiva la detenzione di tali beni per poi procedere alla loro successiva concessione ad altri soggetti, appartenenti o meno allo stesso gruppo, generalmente su licenza e dietro corrispettivo di canoni periodici.
Tralasciando possibili confronti con gli altri sistemi di patent box europei, dove è difficilmente riscontrabile l’estensione dell’agevolazione alle opere artistiche, l’impostazione sopra delineata appare parzialmente in contrasto con le indicazioni presenti nella Relazione illustrativa al Decreto, da cui emerge con forza l’intenzione di agevolare i beni immateriali, più strettamente legati all’attività di ricerca e sviluppo nel settore industriale come, fra tutti, brevetti, know how e marchi di connotazione industriale.
Tuttavia una possibile interpretazione che l’Associazione auspica anche nell’interesse dell’attesa crescita economica e sociale del nostro paese, potrebbe invece essere quella di allargarsi proprio ai campi artistici, ambito dove il nostro paese presenta un’infinita e storica potenzialità mai pienamente espressa.
In questa direzione agevolare anche i redditi generati dalle opere dell’intelletto e dalle creazioni artistiche potrebbe far sviluppare, come detto, tipologie di holding o entità giuridiche specificatamente destinate alla gestione di questi particolari “assets”, favorendo la crescita e lo sviluppo del business indotto e di contorno.
Seguendo questo filone interpretativo, sorgono anche problemi di dubbi applicativi con riferimento alle banche dati. A tale riguardo, infatti, il riferimento alle “opere dell’ingegno” escluderebbe le semplici raccolte di dati (da intendersi come quelle nel quale è totalmente assente l’attività intellettuale, trattandosi invece solo di assemblaggio di informazioni), favorendo, al contrario, quelle che sono frutto di creatività o innovazione.
Ma, a parere dell’Associazione, sono, frequentemente, proprio le banche dati, per così dire, “non creative”, ad essere strettamente connesse al mondo industriale e della ricerca e sviluppo (2), oltre ad essere oggetto di rilevanti investimenti commerciali e, conseguentemente, non appare logico tenere fuori dall’applicazione della disposizione questa tipologia di banche dati.
Per questi motivi si ritiene che possano essere destinatarie dell’agevolazione entrambe le categorie di banche dati, esistendo valide ed evidenti motivazioni economiche e normative a supporto di entrambe le tipologie di banche dati.
Appaiono invece integralmente interessate dall’agevolazione tutte quelle holding che sono detentrici di brevetti, sia quelli che il Codice della proprietà industriale individua come brevetti per invenzione che quelli per modelli di utilità.
Anche alla luce della bozza del Decreto Legge “Investment compact”, approvata il 20 gennaio u.s, sono da includere nella disposizione anche i redditi derivanti dai disegni e dai modelli di prodotti industriali ed artigianali di cui all’art. 31 del Dlgs n. 30/2005; ciò anche nell’ottica di inquadrare la regola nell’ambito della cornice economica e sociale tipica di ogni paese che, nel caso dell’Italia, vede storicamente forte il settore dell’artigianato e della manodopera altamente specializzata da cui provengono modelli di design fortemente utilizzati a livello industriale.
Il testo cita poi, nell’ambito oggettivo, i “marchi di impresa funzionalmente equivalenti ai brevetti”, impiegando così una formula non estremamente felice per chiarezza espositiva.
Nell’ambito dei sistemi economici evoluti, i marchi vengono frequentemente intestati ad holding, che li concedono in licenza, fatturando le royalties ad altre società del gruppo, situate nello stesso paese o in paesi diversi.
Il concetto viene affrontato nella Relazione illustrativa dove viene precisato che sono tali quei marchi che “richiedono il sostenimento di spese di ricerca e sviluppo per il loro mantenimento, accrescimento o sviluppo”; escludendo espressamente i marchi “esclusivamente commerciali”.
A tale riguardo bisogna però specificare che nella bozza di Decreto Legge denominato “Investment compact” (3), approvato dal Consiglio dei Ministri del 20 gennaio u.s, è stata superata la limitazione dell’agevolazione di esclusione dei marchi commerciali, prevedendo pertanto anche questi nell’oggetto dell’agevolazione.
Per questa tipologia di marchio è opportuno fare delle brevi considerazioni sul punto.
Innanzitutto sembrerebbe che l’intenzione originaria (4) del legislatore sia quello di evitare di favorire gli assets puramente commerciali per i quali non sono previste attività di investimento in materia di crescita e perfezionamento, forse per evitare forme di “trasferimento” di marchi esclusivamente legati alla possibilità di acquisire l’agevolazione in atto.
In tale direzione si ritiene vada (andava) inteso il termine “esclusivamente” perché, in ogni caso, il marchio, di per sé, presenta sempre una connotazione commerciale, costituendo, come noto, uno dei segni distintivi dell’azienda che può consistere in un emblema, una denominazione e/o un segno.
La funzione infatti del marchio è quello di “distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”, perseguendo conseguentemente una finalità di scopo commerciale e di vendita.
Richiedere il sostenimento di spese per attività di ricerca e sviluppo, al fine di identificate i marchi agevolabili, dovrebbe intendersi nel senso di fare in modo che questo si possa affermare nel mercato di riferimento, attraverso attività ed azioni di miglioramento dello stesso che sfruttino ricerche di mercato, attività di marketing, miglioramenti sul lato del design, ecc…
Tale interpretazione appare la preferibile in quanto pur rispettando, come detto, la natura intrinseca commerciale del marchio, consente di escludere tutti quelli che non vengono migliorati con attività di ricerca ma sono esclusivamente posizioni di rendite acquisite dalla conoscenza storica ed innata del mercato.
In tale ottica è probabile che dovranno essere attentamente valutate operazioni di acquisto di marchi da parte di terzi, spesso congiuntamente ad un’azienda, al fine di ottenere i redditi nella modalità agevolata dalla disposizione che però corrispondono esclusivamente ad un’ottica tipicamente commerciale e per i quali non vengono sostenute attività di ricerca e sviluppo del marchio.
Imbattendosi poi in formulazioni di norme che citano, come condizione, il sostenimento di spese, dovrà poi essere oggetto di chiarimento la definizione quantitativa delle spese sostenute; potranno quindi rientrare nell’agevolazione assets per i quali le spese di ricerca sostenute sono di ammontare residuale o viene richiesta una percentuale o un ammontare di sostenimento definito o parametrico.
Su tale argomento sarà rilevante anche il comportamento contabile adottato dalla società, nel rispetto dei Principi Contabili, in quanto nel caso di produzione interna dello stesso, si dovranno specificare distintamente i costi sostenuti per la ricerca e sviluppo del prodotto, con quelli destinati all’avviamento del prodotto o sostenuti per l’eventuale campagna promozionale.
Sul punto si segnala che la norma demanda ad un successivo decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, di concerto con il MEF, l’adozione delle disposizioni attuative volte, tra l’altro, ad “individuare le tipologie di marchi escluse dall’ambito di applicazione”.
Si analizzano infine “i processi, le formule e le informazioni relative ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili”.
L’oggetto può identificarsi con il know-how tecnico, tutelato nel nostro ordinamento ai sensi del DLgs 30/2005, non identificabile con un titolo o brevetto, ma caratterizzato da una tutela che si fonda su elementi fattuali.
Ci si riferisce, ad esempio, soprattutto per la forte implicazione di valore economico che spesso assumono, ai cosiddetti know – how “commerciali”, ovvero a tutto quell’insieme di informazioni segrete che possono riguardare esperienze acquisite dall’azienda nel campo commerciale.
Esse, se presentano requisiti impliciti che ne garantiscono la loro tutela quali, fra tutti, l’adozione di misure adeguate a mantenere le informazioni segrete, il valore economico delle informazioni (magari accertate e verificate tramite una perizia proveniente da un esperto indipendente) rientrano nell’alveo dei beni destinatari dell’agevolazione in essere.
***
Un accenno va infine riservato alle novità, in materia di determinazione della quota di reddito agevolabile, contenute nella bozza del Decreto Legge “Investment compact”, che, in base alle disposizioni contenute nella Legge di Stabilità 2015, è determinata sulla base del rapporto tra i costi di attività di ricerca e sviluppo, sostenuti per il mantenimento e lo sviluppo del bene immateriale ed i costi complessivi sostenuti per produrre il bene stesso.
In seguito alle modifiche proposte con la bozza di Decreto citata, il numeratore del rapporto si incrementerebbe, fino ad un massimo del 30% dell’ammontare del costo totale sostenuto per il mantenimento e lo sviluppo del bene, anche di eventuali spese sostenute per l’acquisizione dei beni immateriali o per contratti stipulati con società del gruppo, che, conseguentemente, hanno un riconoscimento parziale ai fini dell’agevolazione de quo.
In pratica, in caso di:
- spese di ricerca sostenute in proprio: 200 (interamente riconosciute)
- spese di ricerca sostenute con società del gruppo: 100 (riconosciute nei limiti del 30% di 200 e, quindi, 60)
- costi complessivi per produrre il bene immateriale: 500
- quota di reddito agevolabile: 200+60/500 = 52%.
Sulla quota di reddito agevolabile sarebbero poi applicabili le percentuali di detassazione previste dalla norma a seconda dell’anno di riferimento.
Inoltre vengono incluse nelle spese di ricerca da inserire al numeratore, sia quelle sostenute in proprio che quelle commissionate a terzi (Università, enti di ricerca e soggetti diversi da quelli del gruppo), che, pertanto, sono caratterizzate da un riconoscimento integrale.
Sempre in relazione a questa specifica normativa, la bozza del Decreto renderebbe facoltativa, e non più obbligatoria, la procedura di ruling con l’Amministrazione Finanziaria nel caso di operazioni svolte nell’ambito del gruppo.
Il quadro complessivo delle misure agevolative che emerge, tenuto conto delle intenzioni del legislatore, appare certamente appetibile per gli investitori; si deve tuttavia osservare che, in base alla lettera normativa attuale, la detenzione di questi intangibles (immobilizzazioni immateriali) rimane pur sempre assoggettata alla normativa sulle società di comodo, presumendo, al di là dei possibili interpelli disapplicativi, una percentuale di redditività presunta dalla detenzione degli stessi particolarmente ingente e che appare irrealistica, stante l’attuale quadro economico/aziendale generale, soprattutto con riferimento agli standard internazionali.
-----
(1) All’articolo 1, commi 37-45.
(2) Si pensi, ad esempio, ai “data list client” di importanti società di servizi e/o di utility.
(3) Il Decreto dovrebbe avere la finalità di prevedere misure urgenti a favore di PMI e per l’attrazione di investimenti.
(4) Prima della proposta di modifica inserita nel Decreto citato.
Agevolazioni R&S
Le agevolazioni per la ricerca e sviluppo - Cumulabilità con la misura del "Patent Box"
La Legge di Stabilità 2015 (1) ridisegna il credito d’imposta per la ricerca e sviluppo (R&S), modificando:
- la platea dei beneficiari;
- la decorrenza del credito d’imposta;
- la misura dell’agevolazione, prevedendo una percentuale più alta per le spese relative a contratti di ricerca stipulati con Università, enti di ricerca ed organismi equiparati e le start up innovative.
Per le finalità che interessano in questa sede appare utile ricordare che, con riferimento all’ambito soggettivo, è stato eliminato il limite di fatturato per le imprese, precedentemente fissato a 500 milioni di Euro, cosicché, ad oggi, il credito d’imposta è riconosciuto a tutte le imprese, indipendentemente, dalla forma giuridica ed al settore economico in cui operano.
L’ambito temporale è stato esteso fino al periodo d’imposta in corso al 31.12.2019; nel caso di soggetti con esercizio sociale coincidente con l’anno solare, potrà essere usufruito per gli anni 2015-2019.
Venendo alla misura del credito, questa è stata abbassata al 25% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta precedenti a quello in corso al 31.12.2015.
L’aliquota è invece elevata al 50% con riferimento alle spese per personale altamente qualificato e per i contratti di ricerca cosiddetti “extra muros”, stipulati, come sopra indicato, con Università, enti di ricerca e start-up innovative (2).
Da notare che tra i destinatari dei contratti di ricerca non vengono citate le neonate PMI innovative, da noi commentate al successivo paragrafo n. 7; un allargamento in tal senso, possibile anche in sede interpretativa, rafforzerebbe ulteriormente questo strumento agevolativo (3). Non si può infatti non sottolineare che il mancato inserimento delle PMI innovative tra i soggetti destinatari dei contratti di ricerca agevolabili appare dipendere esclusivamente dal mancato coordinamento delle due norme dovuto esclusivamente al fattore temporale laddove le PMI innovative sono state equiparate alle start up innovative con una norma successiva e non coordinata con quella che ha istituito le agevolazioni alla ricerca. Sotto il profilo logico sistematico, si deve altrettanto osservare che rispetto alle start up innovative le PMI innovative avrebbero, peraltro, migliori requisiti e attitudini allo svolgimento di attività di ricerca anche con riferimento al potenziale capitale di sviluppo da poter destinare all’uopo.
Appare estremamente importante, ai fini di una corretta utilizzazione del credito in questione, che il contratto di ricerca sia puntualmente redatto, ben evidenziando, come attività primaria, la specifica attività di ricerca e sviluppo connessi con l’acquisizione di nuove conoscenze, eventualmente da utilizzare per mettere a punto nuovi prodotti, processi o servizi.
Le spese relative al personale altamente qualificato impiegato dovranno essere documentate mediante contratti di lavoro afferenti soggetti in possesso di un titolo di dottore di ricerca (o iscritto ad un ciclo di dottorato presso un’università italiana e straniera) o di laurea magistrale in discipline di ambito tecnico o scientifico; rientrano tra i costi agevolabili anche le spese di acquisizione o utilizzazione di strumenti ed attrezzature di laboratorio.
Altrettanto importante assume l’individuazione del periodo nel quale sono “effettuati” gli investimenti agevolati; a supporto di tale esercizio, si ritiene che possano sempre valere le indicazioni già date dall’Agenzia delle Entrate in occasione di precedenti similari agevolazioni (4).
Il concetto che guida tale individuazione è l’effettuazione dell’investimento e non l’eventuale movimentazione finanziaria del pagamento degli stessi; pertanto, nel caso di ricerca “commissionata” a soggetti esterni, farà fede “la data di ultimazione della prestazione o, in casi di SAL, la data di accettazione degli stessi da parte del committente, indipendentemente dalla durata del contratto”. Potranno anche rientrare nell’agevolazione progetti di ricerca anteriori al periodo di riferimento ma con costi sostenuti negli anni oggetto dell’agevolazione.
Per quanto riguarda i costi sostenuti internamente, non avendo generalmente SAL accettati, si potrà fare riferimento a schede di lavorazione interne o, nel caso dei costi del personale, di documentazione comprovante il lavoro prestato.
Interessante risulta essere anche la delimitazione delle attività di ricerca e sviluppo qualora riguardino la realizzazione di prototipi; la norma delimita l’area agevolativa alla realizzazione di prototipi utilizzabili per scopi commerciali e di progetti pilota destinati ed esperimenti tecnologici o commerciali, “quando il prototipo è necessariamente il prodotto commerciale finale ed il suo costo di fabbricazione è troppo elevato per poterlo usare soltanto a fini di dimostrazione e convalida”.
Da sottolineare che, secondo l’Associazione, possono essere oggetto di agevolazione anche le attività di ricerca e sviluppo “miranti ad acquisire nuove conoscenze, da utilizzare per mettere a punto nuovi processi di miglioramento anche di servizi, oltre che di prodotti, o permettere un notevole miglioramento dei prodotti, processi o servizi esistenti” (5); tali processi di miglioramento, in teoria, potrebbero riguardare anche l’innovazione di processi di management o di governance, attuata, ad esempio, attraverso l’implementazione e/o il miglioramento di modelli organizzativi che dovranno, tuttavia, presentare una stretta connessione con la fase “a valle” di realizzazione del servizio/prodotto migliore e più qualificato.
E’ altresì evidente che tale connessione dovrà essere oggetto, insieme alle altre verifiche richieste, di certificazione ed accertamento da parte di un professionista incaricato o di un revisore legale.
Tenuto conto del forte interesse che il legislatore sta indirizzando verso le spese di ricerca e sviluppo (R&S), appare utile precisare brevemente il rapporto che la disciplina del “patent box” ha con la disposizione concernente il credito d’imposta per le imprese che investono in attività di ricerca e sviluppo.
I due provvedimenti appaiono cumulabili e compatibili tra loro, non riscontrando nella normativa di riferimento alcuna preclusione o limitazione; infatti, mentre il “patent box” opera attraverso una detassazione “a valle” del reddito generato dagli assets immateriali che sono, pertanto, il presupposto affinché si formi il reddito agevolato, il credito d’imposta funziona mediante il meccanismo di compensazione nel modello F24 ed interessa “a monte” gli investimenti rappresentati in attività di ricerca e sviluppo (mediante l’elenco delle spese rientranti nell’agevolazione) non necessitando, in teoria, di alcun reddito conseguito per l’attività esercitata.
La ratio del credito d’imposta è quindi connessa alle decisioni di investimento, parametrate su alcuni limiti da rispettare, elencate, come detto, nella normativa e consistenti, in estrema sintesi, in lavori di ricerca, acquisizione ed utilizzazione di conoscenza, produzione e collaudo di prodotti, processi e servizi; la presenza dell’asset immateriale non appare quindi necessaria per l’acquisizione del credito d’imposta ben potendo, quindi, essere svolta attività di ricerca e sviluppo propedeutica eventualmente alla realizzazione di brevetti e marchi, i cui redditi successivamente saranno oggetto di detassazione.
Ad esempio appaiono compatibili, allo stato attuale della normativa ed in attesa dell’apposito Decreto Ministeriale che definisca le modalità attuative dell’agevolazione, le spese relative al personale altamente qualificato impiegato nelle attività di R&S e le spese relative a contratti di ricerca stipulati con Università ed enti di ricerca, rientranti nel credito d’imposta, con le stesse spese, qualora destinate al mantenimento ed allo sviluppo del marchio, che rientrano nella formazione del coefficiente per la detassazione del reddito da questo proveniente.
-----
(1) Si veda l’articolo 1, commi 35 e 36.
(2) Di cui all’art. 25 del DL 18.10.2012, n. 179.
(3) E’ utile osservare che le stesse PMI innovative appaiono anche destinatarie soggettive del credito d’imposta, non prevedendo la norma alcuna limitazione in merito alla forma giuridica o al settore economico in cui operano.
(4) Si veda Circolare n. 51/E del 28.11.2011.
(5) Ricerca definita, secondo la disciplina comunitaria, come “ricerca fondamentale”.
Riforma ravvedimento operoso
La riforma del ravvedimento operoso ed il procedimento di voluntary disclosure - Ulteriori considerazioni
L’istituto del ravvedimento operoso è stato oggetto di profonda modifica dalla Legge di Stabilità 2015 che, come sostanziale e principale modifica, ha stabilito che lo stesso è inibito solo da un’eventuale notifica dell’atto impositivo e non più dall’avvio di una verifica fiscale.
Questo, in pratica, garantisce una permanente usufruibilità della procedura per correggere propri errori e/o omissioni, versando contestualmente una sanzione ridotta e decrescente con l’aumentare del tempo entro cui la violazione viene sanata.
La riforma viene impostata anche coerentemente attraverso l’abrogazione, contenuta anch’essa nella Legge di Stabilità 2015, dei principali istituti deflattivi del contenzioso antecedenti alla notifica degli atti impositivi quali l’adesione agli inviti al contraddittorio, l’adesione ai processi verbali di contestazione (PVC) e l’acquiescenza operabile alla ricezione di un avviso di accertamento.
In sostanza tutti i suddetti istituti vengono integralmente sostituiti da un’unica via percorribile, estesa nella sua durata, che è il ravvedimento operoso, lasciando, per il solo anno 2015, la contemporanea coesistenza delle varie procedure (1).
Tra l’altro questo effetto sostitutivo sembra andare nella direzione voluta dall’Amministrazione Finanziaria di richiedere una sempre maggiore collaborazione autonoma ed attiva del contribuente; ed infatti la differenza più rilevante tra gli istituti sopra descritti, prossimi all’abrogazione, ed il ravvedimento consiste nella circostanza che i primi si basano sull’accettazione integrale dei rilievi mossi dall’Erario su tutte le imposte e le annualità oggetto di accertamento mentre nel secondo caso guida l’autonoma scelta del contribuente che decide le violazioni da sanare e procede al calcolo ed al versamento in proprio.
Senza dover ripercorrere le nuove misure quantitative delle sanzioni previste, si vuole segnalare che l’opportunità del nuovo ravvedimento interesserà anche le violazioni commesse negli anni antecedenti alla sua entrata in vigore, trattandosi di norma procedimentale, a patto, naturalmente, che non sia stato notificato già l’eventuale atto impositivo.
Dalla natura procedimentale della norma deriva conseguentemente che anche per il pregresso il ravvedimento non sia precluso da possibili controlli fiscali e che quindi possa essere azionato anche per annualità antecedenti di oltre due anni dalla violazione.
Alcune considerazioni devono essere formulate circa le cause ostative.
Come detto, è possibile esperire il ravvedimento a condizione che “la violazione non sia stata già constatata e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore o i soggetti obbligati, abbiano avuto formale conoscenza”.
Ciò significa che appare ancora possibile procedere al ravvedimento in caso di violazioni constatate ma non ancora formalmente notificate così come, si ritiene, vi sia la possibilità di ravvedersi sia con riferimento a violazione commesse in periodi diversi da quello controllato che per violazioni relative a tributi diversi da quelli oggetto di verifica.
Interessante è poi rilevare che, come stabilito dalla novellata disposizione normativa, per i tributi gestiti dall’Agenzia delle Entrate (2), l’inizio di un controllo fiscale non osta al ravvedimento operoso, risultando inibito solo a partire da quando viene notificato un avviso di accertamento o di liquidazione o un avviso bonario scaturente dal controllo formale della dichiarazione presentata.
Ad integrazione del quadro esposto, è interessante osservare che la norma cita “le altre attività amministrative” come ostative all’avvio del ravvedimento; ciò significa che potrà essere impiegato in caso dell’avvio, formalmente conosciuto, di indagini di natura penale quali perquisizioni o avvisi di garanzia.
E’ stato fatto notare che il ravvedimento, differentemente da istituti quali conciliazione giudiziale o definizione degli avvisi bonari, non prevede per la sua regolare esecuzione il pagamento rateale, penalizzando in tal senso contribuenti in crisi di liquidità.
Il contribuente tuttavia, come oramai esplicitamente ammesso dall’Agenzia delle Entrate, potrebbe procedere al versamento delle somme dovute attraverso versamenti eseguiti in più frazioni a condizione che siano rispettati i termini prescritti dal DLgs n. 472/1997 e nella considerazione che, ad ogni modo, l’istituto si perfeziona al momento in cui sono stati versati tutti gli importi dovuti e non al momento del pagamento della prima rata.
Rispetto al quadro generale di modifica è possibile muovere un’osservazione critica circa la non inclusione nelle fattispecie omissive estesa dal “nuovo” ravvedimento dell’omessa dichiarazione dei redditi e Iva.
Con riferimento a tale fattispecie, infatti, è rimasto immutato l’articolo di riferimento (3) che consente la regolarizzazione dell’omessa dichiarazione se la presentazione della stessa avviene con ritardo non superiore a novanta giorni; questo termine appare estremamente squilibrato se confrontato, in pratica, con l’indefinito periodo di correzione di altre violazioni.
Su tale punto il sistema appare pertanto non equo, se si pensa in special modo alla problematica che emerge nel caso di omesse dichiarazioni Iva (magari per pochi giorni di ritardo) che riportano crediti, anche ingenti, per i quali, per evitare che vengano perduti nel riporto successivo devono essere azionati strumenti alternativi di recupero complessi e dispendiosi (4).
In tal senso potevano essere maggiormente allineate situazioni che, ad oggi, si presentano disciplinate in maniera assai difforme come, ad esempio, un omesso versamento Iva, per esempio, dell’anno 2013 con un’omessa presentazione della dichiarazione Iva (con credito) spedita 10 giorni successivi alla scadenza prevista dalla Legge.
Ai fini delle opportune valutazioni di costi e benefici, vale la pena anche di procedere a delle opportune considerazioni in merito all’affiancamento del ravvedimento operoso, come sopra rinnovato, con la procedura della voluntary disclosure alla cui illustrazione iniziale è stata dedicata la Circolare n. 3 del Novembre 2014.
Al di là di valutazioni strettamente attinenti ad eventuali contestazioni di tipo penale, sta emergendo che un aspetto critico e da valutare attentamente della procedura è l’estrema variabilità del costo a seconda della caratteristica soggettiva del contribuente, della natura degli investimenti detenuti ed anche del paese dove sono collocati.
Sono stati utilmente distinte (5) tre situazioni che mostrano profonde differenziazioni in termini di costi e benefici della procedura da azionare.
La prima, probabilmente quella a cui ha “pensato” istintivamente il legislatore, è quella nel quale una persona fisica, non nella veste di imprenditore o professionista, detiene attività finanziarie in paesi White List o in Black List, che dovessero stipulare un accordo con l’Italia entro 60 giorni dall’entrata in vigore della Legge (6).
Tale situazione da sanare è innanzitutto limitata ad un numero di periodi d’imposta accertabili non superiori a 5 (tranne casi di rilevanza penale tributaria dell’illecito eventualmente commesso) ed il costo dell’operazione è pari alle imposte sostitutive sui rendimenti finanziari dell’investimento oltre alle sanzioni ridotte.
A queste poi si aggiunge il costo della regolarizzazione, anch’essa con le sanzioni in misura ridotta, riferita alla mancato compilazione del quadro RW del modello dichiarativo, destinato al monitoraggio fiscale delle attività finanziarie estere.
Il costo stimato per questo quadro di riferimento risulta di circa il 5% ed appare pertanto assai interessante in termini di economicità dell’operazione.
Tale costo aumenta considerevolmente se il soggetto, non imprenditore, vuole regolarizzare la detenzione di attività finanziarie in paesi cosiddetti Black List; in tal caso, infatti, i periodi accertabili possono estendersi fino al doppio e dovranno essere applicate le aliquote IRPEF marginali applicabili al soggetto in questione.
Tutto questo può portare il costo dell’operazione a superare anche il 70%; dinanzi una situazione di questo tipo saranno probabilmente fondamentali altre variabili decisionali quali l’esimente penale o la necessità di poter impiegare agevolmente, per sopraggiunte necessità, liquidità anche “stagionate” detenute fuori confine.
La circostanza di voler usufruire delle cause di non punibilità penale appare invece probabilmente l’unica nell’ambito di una situazione in cui la detenzione di investimenti viene fatta un soggetto imprenditore.
In tal caso infatti il costo dell’operazione appare molto ingenti perché dovranno essere calcolate tutte le imposte evase nell’ambito dell’esercizio dell’attività d’impresa: Iva, Irap ed eventuali contributi previdenziali.
L’IRPEF dovrà essere calcolata in base alle aliquote marginali IRPEF, mentre le altre imposte dovranno essere versate in base alla misura legale prevista all’epoca dell’investimento detenuto.
Solamente nella determinazione delle sanzioni sussistono dei limitati vantaggi in termini di applicazione della misura del doppio dei minimi edittali previsti.
In attesa della necessaria Circolare illustrativa, peraltro assai attesa dagli operatori per dirimere numerosi questioni e dubbi ad oggi irrisolti, è intuitivo pensare che il meccanismo sia stato creato soprattutto per il rimpatrio di ricchezze finanziarie, magari datate e frutto di lasciti di qualche anno fa, di riferimento di persone e famiglie.
Appare invece, si ribadisce, poco adatto a riportare ricchezze di imprese localizzate fuori confine per magari spingerli a reinvestire in attività simili in Italia; tale finalità, secondo l’Associazione, poteva invece essere ottenuta in altro modo magari facendo scontare il costo dell’operazione a valere su una detassazione, anche limitata nel tempo, applicata nel sistema nazionale a condizione che la ricchezza fosse reinserita nel circuito produttivo (ad esempio con sottoscrizioni o aumenti di capitali di società).
-----
(1) L’abrogazione degli istituti deflattivi avverrà infatti a partire dall’anno 2016.
(2) Da intendersi: imposte sui redditi, IRAP, IVA, ritenute fiscali, etc
(3) Articolo 13, co. 1, lett. c) del Dlgs n. 472/97.
(4) Si veda Circolare AdE n. 21/E del 25.6.2013.
(5) Si veda nota del Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti.
(6) Tra questi dovrebbe essere presente anche la Svizzera in quanto è in fase di ultimazione la stipula di un accordo collaborativo.
CTP Torino
CTP Torino – Sentenza in materia di qualificazione delle holding industriali
E’ stata recentemente resa pubblica una interessante sentenza per il mondo delle holding emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Torino.
Competente a dirimere la questione circa la legittimità della richiesta di rimborso dell’addizionale IRPEF del 10% (1) sulle azioni assegnate in un piano di stock grant dalla holding di un importante gruppo industriale, la Commissione si è trovata in primis a disquisire circa il corretto requisito soggettivo, ai fini dell’applicazione di questo specifico balzello, riferito ad una holding industriale.
Si ricorda infatti che l’aliquota addizionale era stata introdotta per i dirigenti ed i collaboratori che operano nel settore finanziario ed era applicabile sugli emolumenti variabili, corrisposti sotto forma di bonus e stock option, per la parte degli stessi che eccede il triplo della parte fissa della retribuzione.
La finalità ispiratrice della norma concerneva la necessità di sottoporre a prelievo fiscale aggiuntivo tutti quei redditi attribuiti sotto forma di bonus, in maniera distorsiva, dal sistema finanziario, soprattutto banche e società puramente finanziaria (merchant banking, trading companies, ecc…).
Dal che ne è derivato, in sede interpretativa da parte dell’Agenzia delle Entrate (2), che il settore finanziario, destinatario dell’applicazione del “balzello”, dovesse individuarsi naturalmente nelle “banche e negli altri enti finanziari” ma anche “nelle altre società la cui attività consista in via esclusiva o prevalente nell’assunzione di partecipazioni” e quindi, secondo l’Amministrazione Finanziaria, anche nelle “holding che assumono e/o gestiscono partecipazioni in società finanziarie, creditizie o industriali”.
E qui che, come già fatto osservare nelle nostre precedenti Circolari, l’interprete della norma ha ecceduto nella definizione dei confini di un soggetto finanziario, includendo tra questi addirittura le holding che detengono partecipazioni in società industriali.
L’attività di gestione ed indirizzo dell’attività di gruppo, esercitata attraverso la detenzione delle partecipazioni detenute nello stesso, viene ravvisata, secondo i Giudici chiamati ad esprimersi sulla questione, come una reale forzatura in quanto è attività “rivolta a favore delle società del gruppo, se non esclusivamente, almeno principalmente” e, conseguentemente, non può annoverarsi nell’ambito delle attività di tipo finanziario.
L’eccezione mossa nel giudizio dall’Amministrazione Finanziaria, incentrata in special modo sulla circostanza in base alla quale le holding industriali, al verificarsi di determinate condizioni, erano inserite in un elenco gestito dalla Banca d’Italia, Autorità di Vigilanza del mercato finanziario, determinando perciò la connotazione del soggetto in ente finanziario, presenta per l’organo giudicante una duplice manchevolezza nelle motivazioni.
In primo luogo perché se è vero che questo elenco è così determinante per assegnare alle stesse una connotazione finanziaria è, altresì doveroso osservare che, qualche mese dopo l’entrata in vigore del Decreto istitutivo della misura fiscale de quo, lo stesso elenco fu abrogato proprio con la motivazione che i soggetti quali le holding, non presentano un rischio sistemico nell’ambito del sistema economico-finanziario che necessiti di una vigilanza da parte della Banca d’Italia.
In secondo luogo perché, pur riconoscendo la presenza di questo elenco al momento dell’entrata in vigore della norma, a questo non erano automaticamente iscritte tutte le holding ma solo quelle con determinate caratteristiche e ciò ha appunto comportato che le holding industriali non devono essere automaticamente attratte nel comparto del settore finanziario.
La pronuncia che, è doveroso precisare, è riferita al primo grado di giudizio, appare interessante per tutte quelle holding, dalla tipica connotazione industriale, che sono spesso attratte in adempimenti, anche gravosi e complessi, tipici degli operatori finanziari e che appaiono, anche a prima vista, come assolutamente non idonei ad essere applicati ad un soggetto che non è una società finanziaria.
Si pensi, solo a titolo di esempio, alle recenti interpretazioni in materia di Irap degli enti finanziari applicabili alle holding o alla diatriba, che non è ancora stata risolta, circa l’applicazione del contributo Antitrust alle holding industriali in base ai criteri delle società finanziarie, quali gli istituti bancari.
-----
(1) Introdotta dall’art. 33 del Decreto Legge n. 78 del 31.5.2010, convertito dalla Legge n. 122 del 30.7.2010.
(2) Si veda par. 13 della Circolare n.4/E del 15.2.2011.
Operazioni infragruppo
L’esclusione dal transfer pricing nei finanziamenti infruttiferi intercompany
La concessione di un mutuo a titolo gratuito da parte della controllante italiana ad una società controllata estera, con obbligo di restituzione della somma data in prestito, non può assumere alcun rilievo ai fini del transfer pricing che, in tal caso, non può trovare applicazione; ne, d'altro canto, tale operazione può costituire un abuso di diritto, in assenza di altri elementi convergenti in tal senso. Questo è quanto stabilito, in sintesi, dalla Cassazione, con la sentenza n. 27087/2014.
La pronuncia ha il pregio di analizzare, in riferimento ad una medesima operazione - il finanziamento infruttifero di una società italiana ad un'altra società estera della stesso gruppo - il suo eventuale profilo elusivo, sia in termini di abuso di diritto che di manipolazione sui prezzi di trasferimento intercompany.
Ciò è conseguenza della peculiare contestazione mossa dal Fisco alla società controllante italiana: questa, infatti, avrebbe posto in essere un'operazione "anormale" secondo le ordinarie logiche economiche, realizzando una condotta elusiva che, quindi, sarebbe ricaduta nell'ambito di operatività della disciplina sul transfer pricing di cui all'art. 110, comma 7 del TUIR (1), la quale, secondo l’interpretazione dei giudici, "non pone alcuna presunzione assoluta di onerosità dei finanziamenti effettuati infragruppo, semmai una presunzione di elusività”.
Il Fisco, pertanto, valutando l'operazione di finanziamento secondo il criterio del valore normale previsto dal predetto art. 110, comma 7, ha provveduto ad accertare in capo alla società i maggiori ricavi derivanti "figurativamente" dagli interessi attivi relativi al finanziamento concesso.
La Suprema Corte con la citata sentenza ha stabilito, tuttavia, che l'Amministrazione finanziaria, così operando, aveva illegittimamente sovrapposto la disciplina dell'abuso di diritto a quella sui transfer pricing. Le motivazioni addotte dai giudici su entrambe le fattispecie, analizzate nelle loro caratteristiche peculiari, hanno evidenziato come queste ultime non possano consentire che il sistema del valore normale previsto dall'art. 110, comma 7 del TUIR possa rientrare automaticamente nella schema proprio dell'abuso di diritto.
L’infondatezza dell’assunto difensivo della Agenzia delle Entrate trova causa nell’errata interpretazione della disposizione del menzionato art. 110 del TUIR per cui la riduzione a "valore normale" delle operazioni infragruppo di scambio di beni e servizi qualificherebbe come condotte "anomale o abnormi" tutte le operazioni concluse mediante stipula di negozi che prevedano corrispettivi per importi inferiori al "valore normale" di cui all’art. 9 co 3 TUIR. II senso della norma, che deriva dal significato letterale delle parole, ed in particolare dalia corrispondenza logica tra l’incipit e la proposizione finale del testo normativo, impone di riconoscere che le operazioni infragruppo transfrontaliere che debbono essere regolate al "valore normale" sono solo quelle da cui "derivano" componenti di reddito (positivi o negativi), sempre che, applicando il "valore normale", la operazione produca nel soggetto passivo d'imposta, residente nello Stato, un "aumento del reddito" imponibile.
Come già ribadito, secondo la Cassazione, la disciplina del transfer pricing non costituisce una speciale fattispecie elusiva e, pertanto, non poteva essere utilizzata per contestare l'abuso di diritto. Inoltre, sarebbe stato impossibile individuare un vantaggio fiscale derivante alia società italiana da tale operazione, vantaggio fiscale che costituisce presupposto alia contestazione dell'abuso di diritto.
È stato, difatti, osservato come la stipula di un mutuo "a titolo gratuito" tra società appartenenti al medesimo gruppo potrà eventualmente essere sindacata dall’Ufficio finanziario sotto il profilo della "antieconomicità" della operazione per il soggetto mutuante, ma non integra anche un "meccanismo negoziale contorto" né un "uso abnorme" dello schema negoziale (considerato sotto il profilo della sproporzione del mezzo al fine) che possa costituire elementi sintomatici della condotta elusiva.
Peraltro, nel caso in oggetto, la società contribuente aveva allegata le ragioni del prestito, le quali risiedevano nell'esigenza di ottimizzare le risorse finanziarie di gruppo ed evitare un'eccessiva esposizione verso terzi.
Neanche la contestazione in materia di transfer pricing, secondo la Suprema Corte, poteva trovare ex se legittimità nel caso di specie. Infatti, la previsione del già citato art. 110, comma 7 del TUIR, che pone un limite minimo assoluto di redditività dell'operazione infragruppo parametrato al valore normale, va intesa restrittivamente, in quanto volta a limitare la libertà negoziale privata.
Il dato letterale della norma impone di riconoscere che le operazioni infragruppo transfrontaliere che devono essere regolate al valore normale sono solo quelle da cui "derivano" componenti di reddito positivi o negativi, sempreché l'applicazione del valore normale comporti un aumento del reddito imponibile (2).
La Corte risolve, dunque, la controversia affermando il seguente principio di diritto: “La stipula di un finanziamento non oneroso, erogato dalla società controllante a favore delle controllate, con obbligo della mutuataria di restituzione del tantundem, riconducibile allo schema del munto a titolo gratuito, non subisce limitazioni per il fatto che la controllante, residente nello Stato, e le società residenti in altro Paese membro od in Paesi terzi, appartengano al medesimo grappo societario, realizzando quindi una operazione infragruppo transfrontaliera, non contrastando la gratuità della operazione, che esclude la pattuizione di interessi corrispettivi dovuti dalla mutuataria, con la previsione dell'art. 76 co 5 vecchio TUIR (attuale art. 110 co 7) secondo cui, indipendentemente dal corrispettivo convenuto dalle parli ovvero nel caso in cui detto corrispettivo non sia stato dalle parti predeterminato nel "quantum", il bene o servizio, rispettivamente ceduto o prestato, deve essere valutato secondo il criterio del "valore normale" stabilito dall’art. 9 co 3 TUIR, atteso che l'applicazione della norma tributaria è subordinata dalla legge alla duplice condizione che dalla operazione negoziale infragruppo derivino per la società contribuente componenti -positivi o negativi- reddituali, e che dalla applicazione del criterio del valore normale "derivi un aumento del reddito" imponibile. Tali condizioni non risultano integrate nella concessione del mutuo non feneratizio, essendo estranea a tale schema negoziale la stessa prestazione avente ad oggetto la corresponsione di interessi corrispettivi- che costituisce il necessario termine di comparazione rispetto al "valore normale".
Ne consegue, dunque, che nell'ipotesi di mutuo a titolo gratuito, come incontestato nel caso di specie, non si verifica alcuna incidenza sulla produzione di reddito della società, ovvero il finanziamento infruttifero, per sua stessa natura, non determina interessi e quindi ricavi per la società erogante, ne consegue l'inapplicabilità della disciplina del transfer pricing.
Di contro, qualora il mutuo non venga erogato a titolo gratuito, emerge il problema della quantificazione economica del menzionato valore normale. Al riguardo deve premettersi che:
i. Gli "interessi" intesi quali frutti civili volti alla remunerazione della attribuzione di una somma di denaro con obbligo di restituzione della stessa, comunque ritratti nell’attività d’impresa e, dunque, indipendentemente dalla qualificazione giuridica dello schema negoziale utilizzato dalle parti, sono considerati fiscalmente redditi / ricavi nei seguenti casi: artt. 55 e seguenti del TUIR, concernente i redditi d’impresa; artt 44 co 1, lett. a) e 45, commi 1 e 2, TUIR concernenti i redditi di capitale ; artt. 67 e seguenti del TUIR concernenti i redditi diversi.
ii. Nei rapporti tra soci e società, la presunzione legale di fruttuosità dei prestiti in denaro erogati dai soci alla società (onerosità del mutuo) è stabilita, ai fini fiscali, anche per le società di capitali, dal combinato disposto degli artt. 43 co. 1 e 95 co. 2 vecchio TUIR (3) da dove viene desunto che le somme versate dai soci alla società "sì considerano date a mutuo se dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo. Trattandosi di presunzione legale relativa è suscettiva di prova contraria, essendo consentita al contribuente la dimostrazione di aver effettuato l’attribuzione delle somme ad altro titolo e dunque, non solo a titolo di "conferimenti" (imputabili al capitale sociale), ma anche "a fondo perduto" od in "conto capitale" ovvero come "contributo di scopo" con obbligo di restituzione.
È opinione di Assoholding che, quali termini di riferimento e di comparazione per la quantificazione del predetto “valore normale”, nel caso di prestiti intercompany erogati a titolo oneroso, possano essere correttamente assunti i Tassi Trimestrali rilevati trimestralmente con decreto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
-----
(1) “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito”.
(2) Come previsto dal prima periodo del predetto comma 7, art. 110 TUIR.
(3) Attuali art. 46 co 1 ed art. 81 co 1 del TUIR.
Abuso diritto
Abuso del diritto: le ragioni extrafiscali e le valide ragioni economiche
Com’è noto, lo “SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO RECANTE DISPOSIZIONI SULLA CERTEZZA DEL DIRITTO NEI RAPPORTI TRA FISCO E CONTRIBUENTE” in attuazione della nota “Delega Fiscale” (L. n. 23/14), approvato dal Consiglio dei Ministri in data 24 dicembre 2014, prevede una sostanziale modifica della L. n. 212/2000 (“Lo Statuto del Contribuente”), introducendo l’art. 10-bis, rubricato appunto “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”.
Secondo la norma in commento, “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
Al comma 2, viene esplicitato il contenuto di quanto richiamato nel comma 1 e cioè che “(…) si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato; b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”.
Ancor prima di scendere nel dettaglio dell’analisi normativa, appare evidente la scelta di equiparare l’abuso del diritto e l’elusione non solo sotto il profilo oggettivo e soggettivo, ma anche - come più dettagliatamente infra - per quel che concerne le fattispecie di esclusione e la fase di accertamento.
Una prima analisi testuale, peraltro in linea con quanto già evidenziato dai più autorevoli commentatori, evidenzia come, di per sé, non sia sufficiente la sola ricorrenza di una o più operazioni prive di sostanza economica, se non accompagnata necessariamente da un risultato “essenziale” rappresentato dal conseguimento di vantaggi fiscali indebiti, anche non immediati.
Rispetto all’oggetto della presente disamina, l’attuale versione del testo, in attesa di quella definitiva prevista per il 20 febbraio p.v., presenta profili di criticità laddove ritiene che l’abuso del diritto (o l’elusione) è configurabile “indipendentemente” dalle intenzioni fiscali del contribuente rispetto alla previsione del comma 3 del medesimo articolo, ai sensi della quale “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”.
Ammettendo quindi che il ricorso all’interpello preventivo previsto dal comma 5 e la notifica della richiesta di chiarimenti da parte dell’amministrazione finanziaria possano mitigare la portata dell’avverbio in commento, meritano un approfondimento a sé stante, le valide ragioni extrafiscali, intese come causa esimente dall’applicazione del comma 1, con tutti gli effetti sanzionatori che deriverebbero dall’avvio dell’accertamento nei confronti del contribuente.
Sul punto, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, con sentenza dello scorso 26 febbraio 2014, n. 4604, ha chiarito che “il carattere abusivo di un'operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda”, secondo un orientamento già fatto proprio (1).
In pratica, costituisce comportamento abusivo quell'operazione economica che abbia come scopo principale quello di ottenere vantaggi fiscali e, di conseguenza, non sussiste l'abuso del diritto in quelle operazioni che presentano valide ragioni non solo economiche ma anche “extrafiscali” alternative che giustifichino tali operazioni.
L’orientamento della Corte di Cassazione - nella sentenza richiamata in nota - si uniforma, in buona sostanza, al principio espresso dalla Corte di Giustizia Europea nella Sentenza 21.2.2008, causa C-425/06, secondo cui la presenza di ragioni economiche marginali o non determinanti non esclude il carattere abusivo dell'operazione valutandola nel suo complesso sulla base di parametri oggettivi, poiché - evidentemente - l'esercizio di libertà e di diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dal Trattato sull'Unione europea non può essere limitato per ragioni meramente fiscali. Tuttavia l’inserimento della locuzione “ragioni extrafiscali” consente di compiere un importante passo in avanti circa l’indubbio ampliamento delle operazioni da poter accettare come non abusive.
Quanto sin qui esposto sembrerebbe riassorbire le differenze tra le valide ragioni economiche, la cui assenza costituisce il presupposto applicativo dell’art. 37-bis del DPR n. 600/73, e le ragioni extrafiscali di cui all’emanando art. 10-bis del Decreto attuativo della Delega Fiscale.
E ciò in ragione del fatto che - da un lato - il dato testuale della rubrica dell’art. 10-bis nel qualificare le fattispecie cui la stessa si applica, identifica ed uniforma l’abuso del diritto o l’elusione sotto il profilo oggettivo e soggettivo mentre - dall’altro - supera la sussistenza delle valide ragioni economiche puntando alla realizzazione del risultato/fine del complesso delle operazioni poste in essere e cioè il perseguimento essenziale di vantaggi fiscali indebiti. Ecco perché si è reso necessario anche un riassetto sistematico e definitivo attraverso la conseguente abrogazione dell’art. 37-bis del DPR n. 600/73, ex art. 1, comma 2, dello Schema di Decreto in commento.
In tal senso appare quindi non priva di coordinamento la disposizione di cui all’art. 10-bis analizzata laddove ancora l’esimente di cui al comma 3 non all’assenza di valide ragioni economiche quanto alla sussistenza di ragioni extrafiscali, sulla cui natura e qualificazione valga qui l’orientamento fatto proprio dalla Corte di Cassazione.
In merito si riporta, a titolo esemplificativo, quanto statuito dalla CTR della Lombardia (Sentenza n. 4539/2014, depositata il 24 giugno 2014) circa l’asserito abuso di diritto rispetto ad un’operazione di leverage buy out.
Nel caso di specie, con una complessa operazione di riorganizzazione aziendale, una società italiana aveva contratto un finanziamento bancario per acquistare la partecipazione in una società consociata, detenuta dalla società capogruppo, attuando poi una fusione per incorporazione, secondo lo schema della fusione a seguito di acquisizione con indebitamento o leverage buy out (“lbo”, nel prosieguo).
L’Amministrazione finanziaria aveva eccepito la finalità distorsiva dell’operazione realizzata per il solo conseguimento di una plusvalenza a beneficio della capogruppo. L'acquisto della partecipazione - inoltre - non sarebbe stato funzionale alle esigenze della società italiana, ma piuttosto a quelle della controllante rilevando la non inerenza e conseguente indeducibilità degli interessi pagati sul finanziamento.
Condannata in primo grado, la ricorrente proponeva ricorso in appello sostenendo invece le proprie ragioni economiche, consistenti appunto in un piano di riorganizzazione e separazione delle attività aziendali.
La CTR adita, uniformandosi all’orientamento richiamato in precedenza, ha ritenuto ammissibile e non censurabile l’operazione perché - sulla scorta della documentazione prodotta - di natura organizzativa e consistente in un miglioramento strutturale e funzionale dell'impresa.
Rispetto all’emanando decreto, con la sentenza n. 439/2015, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata attraverso una cessione di partecipazioni prima e un conseguente acquisto di ramo d’azienda, ha esplicitamente qualificato la fattispecie (2), chiarendo che il “tema controverso” - nelle controversie con l’amministrazione finanziaria in materia di abuso del diritto eccepito fino ad oggi ai sensi dell’art. 37-bis del DPR n. 600/73 - “non è tanto quello se vi siano state valide ragioni economiche, ma quanto se esse siano state perseguite coi giusti strumenti”.
La sentenza prosegue evidenziando che “il carattere elusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, presuppone l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dal contribuente, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito dal contribuente medesimo”, richiamando un principio già espresso dalla Cassazione medesima con la sentenza n. 21390/2012.
In buona sostanza, la Corte sembrerebbe quasi voler anticipare o comunque fare proprio il contenuto normativo dell’emanando art. 10-bis dello Statuto del Contribuente, ribadendo che non è sufficiente la sola assenza di valide ragioni economiche a qualificare l’abuso qualora non si accompagni, necessariamente, al perseguimento di un indebito vantaggio fiscale.
Ne discende, come corollario, che le esimenti ragioni extrafiscali devono rappresentare lo strumento giuridico prescelto dal contribuente, se non l’unico possibile, sicuramente il migliore, in termini di efficienza complessiva, rispetto all’obiettivo perseguito.
Nella richiamata sentenza, la Corte ha espressamente rimarcato come nelle ristrutturazioni societarie debba “essere indagato se vi siano manipolazioni e alterazioni di schemi negoziali classici, considerate irragionevoli in una normale logica di mercato e se vi sia reale fungibilità con le soluzioni prospettate dal fisco”.
La citata irragionevolezza rispetto ad una normale logica di mercato è appunto l’antitesi alla ratio su cui si fonda l’esimente di cui all’art. 10-bis, ricorrente, nel caso affrontato dalla sentenza in commento, in una concreta riduzione delle operazioni straordinarie di ristrutturazione, in un numero peraltro inferiore rispetto a quello ipotizzato dall’amministrazione finanziaria.
Del resto la stessa Corte richiama l’operato del Legislatore nazionale (L. n. 23/2014 - “Delega fiscale”) e i principi su cui la medesima delega si basa, dando rilievo, tra l’altro agli indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva e all’insussistenza di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali.
Diventa a questo punto centrale l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria per quel che concerne appunto non tanto il difetto delle valide ragioni economiche, quanto la ricorrenza delle ragioni extrafiscali.
Vale quindi la pena di riflettere, fra tutti, circa il momento del passaggio generazionale di aziende, momento assai delicato e complesso soprattutto nel nostro contesto domestico e non solo (3).
Seppur questo passaggio possa essere tecnicamente svolto attraverso diversi strumenti giuridici (cessioni, conferimenti, fusioni e tutti gli istituti giuridici previsti nell’articolo 37-bis), teoricamente tutte passibili di contestazioni per difetto di ragioni extrafiscali, anche in una scenario futuro, appare evidente che è la motivazione stessa della concatenazione di operazioni ed atti a far emergere la circostanza in base alla quale nel passaggio generazionale questa costituisce sempre una valida ragione economica (4).
Fermo restando il futuro ricorso ad un interpello preventivo e all’obbligo di richiesta di chiarimenti preventiva rispetto all’accertamento della condotta abusiva, vale qui la pena rammentare che la Corte di Cassazione (5) ha quasi reso superfluo il richiamo del comma 5 del futuro art. 10-bis, in base al quale l’obbligatorietà del contraddittorio varrebbe, pena l’invalidità dell’atto di accertamento, soltanto per gli atti di accertamento emessi successivamente all’entrata in vigore del decreto stesso.
In sé la Suprema Corte non ha fatto altro che applicare un consolidato principio generale del diritto comunitario, secondo cui il soggetto destinatario di un atto della pubblica autorità idoneo a produrre effetti pregiudiziali della propria sfera giuridica deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti (sentenza Sopropè e altre), non può avere discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo.
In pratica, secondo la pronuncia richiamata, anche l’abuso deve fornire la garanzie procedimentali previste per le rettifiche in materia di elusione a prescindere da un riconoscimento positivo all’interno di una norma giuridica specifica.
Ciò tuttavia non ha escluso che buona parte delle pronunce giurisprudenziali aventi ad oggetto l’abuso del diritto siano state il frutto di valutazioni ex post operate dagli organi di giustizia tributaria e, in ultima analisi, dalla Corte di Cassazione, il che rende astraibile il concetto di “ragioni extrafiscali” nei termini richiamati in precedenza, ma che non si presta di per sé ad un livello di specificazione ulteriore.
A tal fine non è superfluo ricordare come in altre giurisdizioni come la Francia l’obbligatorietà del contraddittorio sia stata superata attraverso una commissione contro l’abuso del diritto a cui, a beneficio della garanzia oggettiva, possa fare ricorso non solo il contribuente ma la stessa Amministrazione finanziaria.
-----
(1) In tal senso anche Corte di Cassazione, Sezione tributaria civile Sentenza 21 gennaio 2011, n. 1372;
(2) Si veda pag. 4 della sentenza:
http://www.quotidianofisco.ilsole24ore.com/binary.php?filename=/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_FISCO/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2015/01/16/439%20gd.pdf
(3) Si veda, tra tutte, le Comunicazioni della Commissione Europea del 28.3.1998.
(4) A tale riguardo si veda la norma di comportamento n. 147 di ADC Milano.
(5) Sentenza n. 406/2015, Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile
PMI
Le PMI innovative
Con il D.L. n. 3/2015 del 20/01/2015, il Governo ha varato una serie di misure urgenti per il sistema bancario e per gli investimenti.
Tra le misure adottate, l’art. 4 del provvedimento ha introdotto una nuova categoria di imprese e cioè le “PMI innovative”, attraverso l’inserimento all’interno dell’art. 1 del TUF del comma 5-undecies ai sensi del quale “Per “piccole e medie imprese innovative”, di seguito “PMI innovative”, si intendono le PMI, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE, che possiedono i seguenti requisiti: a) la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi, (…), o in uno degli Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo, purché abbiano una sede produttiva o una filiale in Italia; b) la certificazione dell’ultimo bilancio e dell’eventuale bilancio consolidato redatto da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili; c) l’assenza di possesso di azioni quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione; d) l’assenza di iscrizione al registro speciale previsto all’articolo 25, comma 8, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221;”.
Il Legislatore ha, in prima battuta, imposto due requisiti che differenziano le PMI “innovative” dalle altre piccole e medie imprese attualmente operanti, imponendo: l’obbligo di certificazione del bilancio, la mancanza di possesso di azioni quotate su mercati regolamentati e, infine, il fatto di non figurare già come “start up innovative”, giusta iscrizione nel relativo registro speciale, rispetto alle quali non viene richiesto che il capitale sia posseduto per la maggioranza da persone fisiche né viene fissata alcuna preclusione alla distribuzione di utili.
Il perché di tale ultima precisazione va ricercato nella differenza di ratio posta alla base della “creazione” start up innovative e cioè la volontà del legislatore di convogliare ogni surplus finanziario nell’incremento interno delle attività destinate ad incrementare l’innovazione.
La PMI innovativa, alla luce dei requisiti fissati dal legislatore, può tranquillamente essere un soggetto già operante e con un mercato di riferimento consolidato ed attività incanalate, ragion per cui stravolgerne la compagine o precludere l’adozione di politiche di distribuzione degli utili avrebbe rappresentato una forzatura sganciata dal contesto sistematico in cui le stesse PMI operano.
Sotto il profilo oggettivo, la norma definitoria impone il possesso, sub e), di “almeno due dei seguenti requisiti: 1) volume di spesa in ricerca e sviluppo in misura uguale o superiore al 3 per cento della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione della PMI innovativa. Dal computo per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l’acquisto di beni immobili. Ai fini del presente decreto, in aggiunta a quanto previsto dai principi contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del piano industriale; le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati come definiti dall’articolo 25, comma 5, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221; i costi lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo, inclusi soci ed amministratori; le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso. Le spese risultano dall’ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa; 2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al quinto della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a un terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270; 3) titolarità, anche quali depositarie o licenziatarie di almeno una privativa industriale, relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero titolarità dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tale privativa sia direttamente afferente all’oggetto sociale e all’attività di impresa”.
In pratica la PMI innovativa deve - per esser poter accedere ad alcuni dei benefici già previsti per le start up innovative - possedere almeno due dei seguenti requisiti (1 solo invece per le start up innovative) e cioè: investire in ricerca e sviluppo in misura pari al 3% (30% per le start up innovative) del maggior valore tra fatturato e costo della produzione, fare ricorso a personale altamente qualificato in misura almeno pari a un quinto (1/3 per le start up innovative) della forza lavoro complessiva (1/3 per titolari di laurea magistrale), detenere o figurare come depositaria di un brevetto nelle aree economiche indicate o un software registrato alla SIAE.
La norma impone anche l’iscrizione presso una sezione speciale del registro delle imprese cui è connesso l’invio di una serie di informazioni societarie ed il correlato obbligo di aggiornamento delle medesime a scadenze semestrali. La disciplina speciale impone inoltre che le medesime informazioni inserite ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese siano visibili ed intellegibili anche a seguito di semplice consultazione del sito internet dell’azienda.
Tenuto conto del fatto che la presenza dei requisiti consente l’accesso ad una serie di istituti premiali, in deroga ai rispettivi regimi ordinari - di cui infra - è imposto al rappresentante legale il controllo della permanenza dei medesimi e l’attestazione della ricorrenza entro i 30 giorni dalla chiusura del bilancio o, comunque, entro i sei mesi successivi alla chiusura dell’esercizio, da depositare presso il registro delle imprese.
La perdita dei requisiti, cui peraltro è equiparata l’omessa comunicazione dell’attestazione testè menzionata, determina la cancellazione d’ufficio dalla sezione speciale del registro delle imprese, permanendo tuttavia l’iscrizione alla sezione ordinaria.
Quanto alle norme speciali applicabili alle start up e, ora, anche alle PMI innovative, la disposizione in commento, al comma 9, richiama:
- l’art. 26 del D.L. n. 179/2012, laddove consente di posticipare al secondo esercizio successivo la perdita superiore ad un terzo del capitale in luogo del primo esercizio come da regime ordinario con tutte le conseguenze procedimentali (convocazione assemblea, relazione del collegio sindacale, ecc. ecc. fino alla più drastica riduzione giudiziale). La stessa norma contiene un regime derogatorio alle previsioni di cui all’art. 2447 c.c. (2482-ter c.c. per le S.r.l.) relativo alla perdita di oltre un terzo che vada ad erodere il minimo legale. Anche per le PMI innovative quindi, l'assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all'immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, potrà deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell'esercizio successivo. Fino alla chiusura di tale esercizio non opererà la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, punto n. 4. Se entro l'esercizio successivo il capitale non risulta reintegrato al di sopra del minimo legale, l'assemblea che approva il bilancio di tale esercizio dovrà deliberare ai sensi degli articoli 2447 c.c. o 2482-ter c.c.
Sempre in virtù del richiamo operato all’art. 26 del “Decreto Sviluppo-bis”, alle PMI innovative sarà concesso, previa modifica statutaria - se necessaria - di creare, in deroga all'articolo 2479 (1) c.c., comma 5, categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative.
Inoltre, le PMI innovative potranno creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative, sempre in deroga alla disposizione richiamata al capoverso precedente. Sarà inoltre possibile l'emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci.
Limitatamente alle PMI costituite in forma di S.r.l. non sarà applicabile il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall'articolo 2474c.c. qualora l'operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l'assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell'organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali.
Le PMI saranno anche abilitate al funding per il tramite dei portali di crowdfunding che offriranno al pubblico i prodotti finanziari che queste ultime decideranno di emettere.
Infine, sul fronte fiscale, sempre per effetto del richiamo integrale all’art. 26, alle PMI innovative non saranno soggette al regime di verifica per le società non operative.
- art. 27 del D.L. n. 179/2012, in virtù del quale è contemplata l’esenzione fiscale e contributiva sulla remunerazione con strumenti finanziari della start-up (qui PMI) innovativa e dell'incubatore certificato;
- art. 30 del D.L. n. 179/2012, per quel che concerne l’intervento del fondo centrale di garanzia e il supporto da parte dell’ICE;
- art. 29 del D.L. n. 179/2012, relativamente agli incentivi fiscali riconosciuti solo alle PMI innovative costituite da non più di 7 anni.
-----
(1) “Ogni socio ha diritto di partecipare alle decisioni previste dal presente articolo ed il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione”.
Loyalty shares
Approvate dalla Consob le modifiche regolamentari in materia di azioni a voto plurimo e a voto maggiorato
La Consob, lo scorso dicembre (1), ha approvato le modifiche al regolamento emittenti per dare attuazione alla nuova normativa in materia di azioni a voto multiplo, contenuta nel decreto legge "Competitività" (2), poi convertito nella legge n. 116 dell'11 agosto 2014. Le novità contenute nelle modifiche regolamentari sono rappresentate dall’introduzione, nel nostro ordinamento di due fattispecie previste già da tempo da molti ordinamenti societari occidentali: il voto maggiorato ed il voto plurimo.
Il voto plurimo era stato originariamente introdotto con il Decreto Competitività, la scorsa estate, quando il legislatore aveva previsto per le società quotate o quotande, e quindi aziende non ancora presenti sul mercato ma con l’intenzione di sbarcare in borsa, l'introduzione di modifiche statuarie che permettano l’emissione di azioni a voto maggiorato (nei casi massimi, doppio) a vantaggio degli azionisti più stabili, che detengano i titoli da almeno due anni.
Prima dell’emanazione del Decreto Competitività, il diritto di voto poteva essere limitato ovvero addirittura eliminato (con azioni senza diritto di voto) nel limite del 50% del capitale sociale, ma, almeno come regola generale, non poteva essere incrementato. La nuova disciplina prevede un trattamento differente per società per azioni quotate e non quotate. Con il nuovo testo dell’articolo 2351 c.c. (terzo comma), il legislatore italiano ha soppresso il divieto di emettere azioni a voto plurimo, introducendo così la facoltà, per le società per azioni “chiuse” (ovvero non quotate), di emettere azioni che diano diritto di esprimere più di un voto (in ogni caso non superiore a tre) in qualsiasi assemblea, nelle assemblee riguardanti soltanto particolari argomenti ovvero subordinatamente al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative.
Per le società quotate l'articolo 127 sexies del Testo Unico della Finanza esclude la possibilità di emettere azioni a voto plurimo ai sensi dell'articolo 2351 c.c., salvando però caratteristiche e diritti delle azioni a voto plurimo eventualmente emesse anteriormente all'inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato. Se lo statuto non dispone diversamente, possono però essere emesse azioni a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già esistenti in caso di aumenti di capitale, fusioni e scissioni: questo al fine di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni. Sempre riguardo alle società quotate, l'articolo 127 quinquies del Testo Unico della Finanza introduce nel nostro ordinamento un diritto di voto "maggiorato" a favore di coloro che posseggono azioni della società per un determinato periodo di tempo. In tal senso le società quotate posso introdurre nel loro statuto la possibilità che "sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi". L'introduzione in statuto del voto maggiorato può essere effettuata anche da società non quotate ma che abbiano in corso il procedimento di quotazione in un mercato regolamentato (purché non risultante da una fusione): in tal caso può essere previsto che ai fini del possesso continuativo sia computato anche il possesso anteriore. Questa possibilità è, ovviamente, stata introdotta per incentivare il processo di quotazione.
L’introduzione delle azioni a voto plurimo richiederà, per le società già esistenti, una modifica statutaria da assumere con le maggioranze previste in tema di assemblea straordinaria. Tuttavia, si segnala che, in deroga agli ordinari quorum indicati negli artt. 2368 e 2369 c.c., l’art. 212 disp. att. c.c. prevede che le deliberazioni con cui è prevista la creazione di azioni a voto plurimo per le società iscritte nel registro delle imprese alla data del 31 agosto 2014 sono prese, anche in prima convocazione, con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea. L’emissione di azioni con voto plurimo farà sorgere il diritto di recesso in capo agli azionisti che non hanno consentito all’adozione della relativa delibera, ai sensi dell’art. 2437, primo comma, lett. g) c.c., che prevede, in generale, il diritto di recesso per il caso di deliberazioni che importino “modificazioni dello statuto concernenti i diritto di voto e di partecipazione”.
Per ciò che invece concerne le deliberazioni di modifica dello statuto attraverso le quali viene introdotto il voto maggiorato, in via transitoria è stato previsto che tali deliberazioni, se adottate entro il 31 gennaio 2015, possono essere assunte, anche in prima convocazione, con il voto favorevole di almeno la maggioranza del capitale rappresentato in assemblea. Anche in considerazione del fatto che le azioni a voto maggiorato non costituiscono una categoria di azioni (a differenza delle azioni a voto plurimo), il legislatore ha escluso la possibilità di esercitare il diritto di recesso da parte dei soci non consenzienti in caso di introduzione della clausola statutaria di maggiorazione del voto.
Il successivo passo è poi stato il necessario intervento legislativo della Consob. Il regolamento concernente la disciplina degli emittenti è stato, quindi, modificato al fine di rendere operative tali norme, attraverso l'introduzione dell'articolo 44-bis.1, in cui si legge che "nelle società i cui statuti consentono la maggiorazione del diritto di voto o hanno previsto l'emissione di azioni a voto plurimo, la partecipazione rilevante... è calcolata tenendo conto del numero dei diritti di voto, esercitabili nelle deliberazioni assembleari riguardanti la nomina o la revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza, in rapporto al numero complessivo dei diritti di voto comunicati dall'emittente".
Il modello seguito dal legislatore e dall’Authority è quello della “loyalty shares”, già in vigore in molti Paesi, tra i quali l’Olanda e la Francia. Le azioni con voto maggiorato non rappresentano una categoria speciale di azioni, come invece accade nel caso delle azioni a voto plurimo, ma sono titoli azionari che prevedono il potenziamento del diritto di voto come premio alla “fedeltà” all’azionista di lungo periodo; presentano, dunque, lo stesso valore nominale rispetto alle altre azioni emesse dalla stessa società, ma conferiscono al titolare un maggior numero di voti in sede assembleare, ovvero gli conferiscono lo stesso numero di voti ma per un valore nominale inferiore. Ne consegue, per l'azionista, una posizione privilegiata con riferimento all'esercizio dei diritti amministrativi.
Strumento differente è quello delle azioni a voto multiplo, l’altra tipologia introdotta dalla normativa: le azioni a voto multiplo (o plurimo) godono di un diritto maggiorato tout court, indipendentemente dal periodo di possesso. Attualmente l’utilizzo di tale strumento, come precedentemente illustrato, è precluso alle società per azioni “aperte” (ovvero quotate); è, quindi, auspicabile definire una normativa nazionale in materia equiparata a quella di derivazione anglosassone che prevede, per l’appunto, la possibilità di emissione di azioni a voto plurimo per tutte le tipologie di società per azioni. Entrambi gli strumenti rientrano, poi, nei cosiddetti CEM, control enhancing mechanism, ovvero gli istituti giuridici che consentono il decoupling tra proprietà e controllo.
La possibilità oggi prevista di emettere azioni a voto plurimo ovvero maggiorato consentirà, dunque, di incidere sui quorum assembleari e, di conseguenza, sulle regole di governance e di controllo delle società di capitali.
Tali strumenti azionari potrebbero invero permettere, alle aziende che raccolgono capitali, di aumentare gli investimenti globali ed evitare l'opacità di meccanismi posti in essere al solo scopo di mantenere il controllo societario. Con tali disposizioni, il legislatore mira, difatti, a favorire l’accesso al mercato dei capitali di rischio attraverso la creazione di un ulteriore strumento che permetta l’afflusso di risorse economiche nelle casse sociali (senza rischi di un’eccessiva diluizione del gruppo di controllo) nonché ad incentivare processi di quotazione, consentendo ai soci di controllo la possibilità di conservare la posizione di azionista di riferimento. La specifica ratio dell’introduzione delle azioni a voto maggiorato nelle società quotate va, difatti, ricercata nella necessita di incentivare il mantenimento di investimenti azionari di medio-lungo termine (così da stabilizzare gli indirizzi gestionali dell’impresa) e, quindi, la presenza di azionisti durevoli, non spinti esclusivamente da una logica speculativa di breve periodo e, inoltre, dotati di un più effettivo potere di controllo gestionale. Tali strumenti potrebbero, inoltre, permettere la sterilizzazione delle ripetute ricapitalizzazioni necessarie per inseguire i crescenti requisiti patrimoniali chiesti dai regolatori. Appare, quindi, evidente l’opportunità offerta alle oltre 40mila Spa italiane di poter collocare le proprie azioni sul mercato attraverso un meccanismo che, nel contempo, possa garantire un flottante alto, minimizzando i rischi di scalata.
Quanto alle holding poi, attraverso tali strumenti potrebbe procedersi ad una diversificazione mirata del portafoglio delle partecipazioni, attenuando, nel contempo, il rischio di concentrazione. Il voto plurimo (o multiplo), oltre a bilanciare il maggior costo delle partecipazioni attive - volte a massimizzare il valore attraverso lo svolgimento dell’attività di regia, direzione e coordinamento, nonché il controllo sui manager - rispetto a quelle passive – finalizzate unicamente alla gestione del rendimento - eviterebbe alle aziende di mantenere la maggioranza ed operare il controllo attraverso catene di holding e subholding, poco apprezzate, specialmente in ambito internazionale dove il voto plurimo esiste da tempo. Lo strumento delle azioni a voto multiplo (o plurimo) potrà avere inoltre interessanti utilizzi nell’ambito delle joint venture societarie per la definizione delle regole e degli equilibri di governance (ad esempio nelle operazioni di investimento dei fondi di private equity oppure più in generale nelle operazioni di investimento di capitale).
Per il tramite di uno specifico comunicato (3), l’Authority ha chiarito poi quali informazioni debbano essere incluse nell'elenco degli azionisti della società che intendono avvalersi del voto maggiorato, tra cui i dati identificativi e il numero delle azioni detenute. Ha stabilito, inoltre, che queste informazioni devono essere aggiornate con cadenza almeno mensile e che devono essere messe a disposizione dei soci che ne facciano richiesta. Se le informazioni si riferiscono ad azionisti rilevanti, cioè titolari di partecipazioni superiori al 2%, la società è tenuta a pubblicarle sul proprio sito internet.
Per quanto riguarda l'accertamento dell'effettivo possesso delle azioni per almeno due anni, Consob ha inteso tener conto delle indicazioni emerse in fase di consultazione, avvenuta nel mese di novembre. La Commissione presieduta da Giuseppe Vegas ha, difatti, accolto alcuni dei suggerimenti proposti, tra cui la previsione di una attestazione, tramite una comunicazione resa dagli intermediari alle società emittenti, finalizzata ad attestare l'effettivo possesso delle azioni per almeno il periodo di fedeltà chiesto ai soci per poter entrare nell'elenco che dà diritto a esercitare due voti per ogni azione ordinaria. A tal fine Consob modificherà il regolamento sulla gestione accentrata dei titoli azionari dematerializzati.
Altre novità chiarite da Consob riguardano le soglie rilevanti per la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e delle offerte pubbliche di acquisto (OPA) obbligatorie. In particolare l’Authority ha confermato:
- che il calcolo delle soglie rilevanti ai sensi del Testo unico della Finanza (Tuf) è effettuato in relazione non più al numero delle azioni bensì ai diritti di voto;
- l'esenzione dall'obbligo di comunicare il superamento della soglia del 2% in caso di variazioni "passive", dovute a mutamenti nella base di calcolo del capitale sociale o dei diritti di voto (il denominatore). Il superamento delle altre soglie rilevanti resta soggetto a obbligo di comunicazione anche se di natura "passiva".
- il criterio di calcolo delle partecipazioni rilevanti ai fini dell'obbligo di Opa tiene conto anch'esso del numero dei diritti di voto anziché delle azioni;
- in caso di superamento "passivo" delle soglie rilevanti l'obbligo di Opa insorge solo qualora sia stato acquistato più del 30% delle azioni. Negli altri casi è prevista un'esenzione.
Con specifico riferimento al voto maggiorato si evidenzia come, se lo statuto non dispone diversamente, la maggiorazione del diritto di voto si computa anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale.
Inoltre la legittimazione al beneficio del voto doppio rileva anche con riferimento ai patti di famiglia, ovvero l’istituto attraverso il quale il legislatore intende regolamentare il passaggio generazionale delle aziende mediante effetti anticipatori della successione (4). In base all’articolo 768-bis c.c., il patto di famiglia è “…il contratto con cui (…) l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. L’articolo 3, comma 4-ter, del TUS, come da ultimo modificato dalla legge finanziaria per il 2008 (5), dispone che “I trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia (…) a favore dei discendenti, e del coniuge di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta”.
Come evidenziato dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 3/E del 22 gennaio 2008, per il mantenimento dell’agevolazione in parola è necessario tuttavia che i beneficiari proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa ovvero detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dal trasferimento. Tale beneficio è, quindi, subordinato alla circostanza che le partecipazioni ereditate o donate consentano o integrino il controllo della società ai sensi dell’art. 2359, co. 1, n. 1), c.c, vale a dire conferiscano la maggioranza (più del 50%) dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria.
L’utilizzo dei menzionati strumenti azionari permetterebbe, dunque, il rispetto di tale requisito (esercizio della maggioranza dei diritti di voto) anche attraverso quote di partecipazione societaria inferiori alla maggioranza del capitale; ciò consentirebbe all’imprenditore di beneficiare della fiscalità agevolata prevista per il passaggio generazionale dell’azienda, attraverso lo strumento dei patti di famiglia, anche nel caso di trasferimenti inferiori al 50% della proprietà dei titoli di partecipazione al capitale o patrimonio della società.
La maggiorazione non ha, poi, effetto sui diritti, diversi dal voto, spettanti in forza del possesso di determinate aliquote di capitale. La cessione dell'azione, a titolo oneroso o gratuito (ovvero la cessione diretta o indiretta di partecipazioni di controllo in società o enti che detengono azioni a voto maggiorato in misura superiore alla soglia del 2% ovvero del 5% in caso di PMI), determina la perdita della maggiorazione del voto. Se lo statuto non dispone diversamente, invece, il diritto di voto maggiorato (a) viene conservato in caso di patti di famiglia, di successione per causa di morte nonché in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni; e (b) si estende alle azioni di nuova emissione in caso di aumento di capitale gratuito ai sensi dell'art. 2442 c.c.
-----
(1) Delibera Consob n. 19084 del 19 dicembre 2014.
(2) D.L. n. 91 del 24 giugno 2014.
(3) Comunicato stampa del 23 dicembre 2014.
(4) Si veda L. 14 febbraio 2006, n 55.
(5) Si veda L. 24 dicembre 2007, n. 244.