Osservatorio sull'edilizia - Presentazione

La qualità dei contenuti de Il Sole 24 ORE insieme all’esperienza di BigMat - il più grande Gruppo europeo di Punti Vendita di materiali per costruire e ristrutturare - sono gli ingredienti fondamentali che hanno portato alla realizzazione dell’"Osservatorio sull’edilizia” che oggi siamo lieti di proporle. Uno strumento periodico di aggiornamento e informazione con una selezione di notizie ed approfondimenti del Gruppo 24 ORE dedicati al mondo dell’edilizia, con particolare attenzione agli aspetti normativi e agli aggiornamenti utili per lo svolgimento della sua professione.

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Il trasferimento della casa ristrutturata non sempre cambia il titolare del bonus

La variazione nella titolarità dell'immobile su cui sono stati realizzati interventi di recupero del patrimonio edilizio non sempre comporta l'automatico trasferimento in capo all'acquirente del diritto di continuare a detrarre le quote residue. La regola generale, attualmente in vigore, secondo cui la "detrazione segue l'immobile" prevede, infatti, più di un'eccezione, che è bene conoscere, dal momento che nel 2016 più di 8 milioni di persone fisiche hanno indicato in dichiarazione le rate della detrazione sul recupero edilizio.

Vendita dell'immobile
L'articolo 16-bis del Tuir, comma 8, dispone che in caso di vendita (ma, si ritiene, anche in caso di permuta o donazione) dell'unità immobiliare sulla quale sono stati realizzati gli interventi di recupero del patrimonio edilizio (36 e 50%) e quelli di risparmio energetico (55% e 65%), la detrazione non utilizzata in tutto o in parte dal cedente viene trasferita per i restanti periodi d'imposta all'acquirente (persona fisica) dell'unità immobiliare. La regola vale anche nel caso di interventi eseguiti sulle parti comuni dell'edificio in cui si trova l'unità immobiliare trasferita. A tale principio è possibile derogare con un accordo siglato dalle parti, a condizione che lo stesso sia riportato nell'atto notarile di trasferimento dell'immobile (circolare 19/E/2012, risposte 1.6 e 1.8) o in una successiva scrittura privata autenticata specificamente sottoscritta (si veda l'altro articolo in pagina).Qualora la cessione riguardi solo una quota dell'immobile e non il 100% dello stesso, l'utilizzo delle rate residue rimane in capo al venditore (circolare 24/E/2004 risposta 1.8) senza, in questo caso, alcuna possibilità di deroga concordata. Se però la cessione pro quota comporta come effetto il trasferimento esclusivo della titolarità dell'immobile, allora la detrazione si trasmette all'acquirente (risoluzione 77/E/2009). È il caso, ad esempio, del comproprietario al 50% che rileva l'altro 50 per cento.

Trasferimento mortis causa
In ipotesi di successione, le quote residue di detrazione spettano per intero solo all'erede o agli eredi a cui va la detenzione materiale e diretta dell'immobile, a prescindere dalla circostanza che questi lo abbia adibito o meno a propria abitazione principale (circolare 24/E/2004, risposta 1.1). La "detenzione" deve sussistere non solo al momento di accettazione dell'eredità, ma anche per ciascun anno per il quale il subentrante intenda fruire delle rate residue di detrazione. Quando gli eredi sono più di uno, possono verificarsi diverse situazioni:
1) se uno solo di essi abita l'immobile, la detrazione spetta per intero a quest'ultimo, non avendone gli altri più la disponibilità;
2) se nessuno degli eredi ha la detenzione materiale e diretta del bene, perché, ad esempio, è concesso in comodato o locato a terzi, la detrazione delle rate residue in vigenza del contratto non spetta a nessuno e viene persa;
3) se il fabbricato è tenuto a disposizione e al momento della successione non era locato (ad esempio, una seconda casa del de cuius), la detrazione si trasmette in parti uguali a tutti gli eredi (pro quota).
In caso di successiva vendita o di donazione da parte dell'erede (o degli eredi) che ha la detenzione materiale e diretta del bene, le quote residue non fruite da questi non si trasferiscono all'acquirente/donatario, neanche nell'ipotesi in cui la vendita o la donazione siano effettuate nel medesimo anno di accettazione dell'eredità. L'erede che detiene direttamente l'immobile e solo in seguito lo concede in comodato o in locazione, non può fruire delle rate di detrazione di competenza degli anni in cui non ha la detenzione diretta del bene. Si pensi a una casa sfitta ereditata nel 2016 e locata nel 2018: nella dichiarazione presentata nel 2019 l'erede non potrà indicare la detrazione. Tuttavia, al termine del contratto di locazione o di comodato, potrà beneficiare delle eventuali rate residue ancora rimaste (circolare 17/E/2015, risposta 3.3).Anche quando il coniuge superstite, titolare del solo diritto di abitazione, rinuncia all'eredità, non può fruire delle residue quote di detrazione, venendo meno la condizione di erede. In tale caso neppure gli altri eredi (figli) potranno beneficare della detrazione se non convivono con il coniuge superstite, poiché manca il requisito della detenzione.

Bonus arredi
Mentre per quanto attiene le spese per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio e quelle finalizzate al risparmio energetico le regole (e le relative eccezioni) sul trasferimento del diritto a detrarre le quote residue sono sostanzialmente analoghe (circolare 36/E/2007, risposta 7), per quanto riguarda i bonus legati agli arredi (sia "immobili ristrutturati" che "giovani coppie") la detrazione non utilizzata in tutto o in parte non si trasferisce. Non sono ammesse eccezioni, né in caso di decesso del contribuente, né in quello di cessione dell'immobile. Il diritto a detrarre rimane tuttavia in capo al vecchio proprietario (circolare 21/E/2010) in caso di cessione dell'immobile, con il decesso, invece, è perso.

Il condizionatore non può «ingombrare» tutta la parte comune

Se il condizionatore ingombrante impedisce la collocazione di altri apparechi va rimosso. Questa la soluzione della Cassazione (sentenza 17400/2017) al caso specifico, nell’ambito del principio in base la quale ciascun condomino può utilizzare la cosa comune anche per fini esclusivamente personali, traendone ogni possibile utilità, purché non ne alteri la destinazione e non ne risulti inibito un uso paritetico agli altri condomini (si veda anche la precedente sentenza 13261/2004).

In questo caso è stata ritenuta illegittima, da parte di un condòmino, l’installazione di un condizionatore all’esterno (su un parte comune dello stabile) del proprio appartamento.

Dalle risultanze istruttorie (Ctu) era emerso che la porzione di parete (il 60 per cento) utilizzata dal condòmino era tale da non permettere agli altri tre condòmini di poter fare (almeno ipoteticamente) uso di quella specifica parte comune dello stabile.

Secondo la Cassazione, però, in altre parole, l’articolo 1102 del Codice civile pone chiaramente due limiti all’utilizzo da parte del singolo della cosa comune: tali limiti consistono appunto nel non ledere il diritto (o anche solo l’aspettativa) degli altri condòmini di godere della cosa in comunione allo stesso modo, e nel non alterarne la destinazione.

Nel caso di specie, è evidente che l’utilizzo della parete esterna per la maggior parte della sua superficie non avrebbe modificato la destinazione di utilizzo del bene (e quindi questo limite non veniva violato), ma avrebbe, viceversa (ed in questo caso l’intervento del condomino non si poteva ritenere consentito), di fatto impedito agli altri condomini di utilizzare il bene comune con identiche modalità e traendone eguale soddisfazione.

Ancora, la Cassazione, nella decisione 17400 osservava come tale installazione si sarebbe potuta ritenere consentita (ma in causa non erano emersi elementi in tal senso) solo a fronte del consenso degli altri condòmini (è ovvio che all’unanimità i condomini possono disporre come meglio credono dei propri diritti soggettivi) o di loro comportamento inerte.

Infine, nel respingere il ricorso del condòmino che si era appropriato in modo non consentito del bene comune, la Cassazione osservava come non poteva, nel caso di specie, essere richiamata la giurisprudenza della Suprema corte sul godimento turnario o differenziato del bene da parte dei condomini: questo in quanto l’installazione del condizionatore aveva, per sua natura, carattere definitivo e non temporaneo.

Appalto, lavoro da rifare se il difetto è grave

Questa voilta l’impresa rifà tutto il lavoro: contrariamente al solito, quando il risarcimento per un lavoro malfatto, tuttavia, consiste abitualmente nel ripristino della sola parte danneggiata o nel rimborso del corrispettivo del danno, la Cassazione, con ordinanza numero 15846 del 22 giugno 2017, afferma un principio differente.

La controversia parte dalla citazione in giudizio da parte di un proprietario dell’impresa che aveva costruito lo stabile: i pavimenti dell’appartamento erano imperfetti, presentando diverse piastrelle rotte e irregolarità strutturali. Alla luce di tale danno il proprietario domandava il risarcimento del costo dei lavori di ripristino.

Dopo aver perso in Tribunale, il costruttore agiva in appello, chiedendo la riforma della sentenza. La Corte d’appello, tuttavia, affermava che i vizi rilevati erano tanto gravi e tanto diffusi da costituire “gravi difetti” ai sensi dell’articolo 1669 del Codice Civile e quindi dichiarava il convenuto tenuto all’integrale rifacimento del pavimento.

L’impresa appaltatrice, quindi, non si arrendeva e ricorreva in Cassazione

In particolare, il ricorso era fondato su tre motivi .

In prima battuta il ricorrente contestava come la presenza di un esiguo numero di piastrelle rotte non potesse comportare l’applicazione dell’articolo 1669 del Codice Civile, data la scarsa importanza dell’inadempimento.

Il secondo motivo era incentrato sulla impossibilità di considerare l’inadempimento come grave, data l’assenza di incidenza sulla funzionalità del bene.

Come terzo e ultimo motivo, invece, il costruttore contestava la decisione della Corte d’Appello di condannarlo al rifacimento dell’intero pavimento, considerando questo come unico modo per ovviare ai vizi riscontrati.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, rigettava integralmente il ricorso sopra riassunto.

Secondo la Corte, infatti, i vizi riscontrati sul pavimento in oggetto erano tanto gravi da potere integrare la definizione dei “gravi difetti” di cui all’articolo 1669 del Codice Civile.

In particolare essi consistevano in difetti costruttivi, difetti imputabili alle tecniche adoperate e al materiale impiegato.

Tali vizi, per la Corte, erano tanto gravi da compromettere l’integrità della struttura e rendere difficoltoso il suo utilizzo.

Secondo la Cassazione, infatti, a rilevare non era la scarsa diffusione delle piastrelle rotte (in numero esiguo rispetto al totale) quanto i gravi difetti di costruzione i quali «danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c., in presenza di qualsiasi alterazione che incida sulla funzionalità globale dell’immobile, o ne menomi in modo considerevole il godimento».

In conclusione, in caso di vizi nel bene oggetto di appalto, al fine di determinare il tipo di risarcimento (mera riparazione dei vizi o rifacimento integrale della struttura) occorre prendere come parametro non solo la percentuale della parte viziata rispetto a quella costruita a regola d’arte, ma piuttosto l’incidenza dei vizi a rendere difficoltoso il godimento del bene e menomare la sua funzionalità.

In questi casi, quindi, l’impresa non deve solo compiere una attività di riparazione delle singole imperfezioni, ma provvedere all’integrale rifacimento dell’intera opera.

Tale valutazione, peraltro, deve essere svolta dal giudice di merito, non essendo demandabile alla Cassazione.

Consiglio di Stato: la tettoia abusiva va demolita, anche a 40 anni dalla costruzione

La tettoia realizzata sul terrazzo non può essere paragonata ad un elemento di arredo urbano irrilevante sotto il profilo edilizio-urbanistico; si tratta di un intervento di nuova costruzione e, come tale, richiede il preventivo rilascio di un permesso di costruire.

Vietate le tettoie
Il Comune ordina la demolizione di una tettoia realizzata, sul lastrico solare, circa 40 anni addietro, consistente in una struttura metallica di circa 40 mq., con paletti di legno infissi su vasi e con una copertura di plastica e chiusura con cannicciato. Ordine di demolizione viene impugnato ma il Tar respinge il ricorso; la realizzazione dell'opera avrebbe richiesto il preventivo ottenimento di un permesso di costruire trattandosi di una "nuova costruzione" non potendo essere qualificata come intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, let. b) del Dpr 380/2001.
L'ordine di demolizione sarebbe del tutto legittimo in quanto si tratterebbe di un atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi pubblici coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Il privato non potrebbe neanche fare affidamento sul decorso del tempo (circa 40 anni) che non avrebbe avuto l'effetto di sanare l'opera abusiva.

Il parere del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 30 giugno 2017 n. 3210, ha confermato in pieno il parere espresso, in primo grado, dal Tar. Secondo il giudice di appello, la tettoia realizzata sul terrazzo non può essere paragonata ad un elemento di arredo urbano irrilevante sotto il profilo edilizio-urbanistico e realizzabile in assenza di un titolo abilitativo dei lavori; si tratta di un intervento di nuova costruzione, riconducibile alla categoria di cui all'art 3, comma 1, lett e/5 del Dpr n.380/2001 e, come tale, richiede il preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi del successivo art. 10, salvo che per le opere che siano destinate a «soddisfare esigenze meramente temporanee».

Il concetto di «opera precaria»
L'opera può definirsi precaria, e quindi realizzabile anche senza uno specifico titolo edilizio, quando sia destinata a soddisfare esigenze temporanee; in tale ipotesi, sarebbero irrilevanti i materiali utilizzati, l'amovibilità delle strutture, l'ancoraggio all'edificio o al suolo (Cons. di Stato, Sez. VI, n. 1619/2016).

Legittimo l'ordine di demolizione
Partendo dal presupposto che la realizzazione della terrazza richiede il preventivo rilascio di un titolo abilitativo dei lavori ne discende, a cascata, che l'opera realizzata in assenza di tale titolo edilizio deve essere considerata abusiva e quindi, alla resa dei conti, la legittimità dell'ordine di demolizione.

Il decorso del tempo non sana l'abuso....
Il trascorrere del tempo non "sana" l'abuso ma, nel migliore dei casi, può richiede una motivazione rafforzata nell'emissione dell'ordine di demolizione. Nel caso in esame, il giudice ha valorizzato un diverso aspetto. Il decorso del tempo non poteva essere invocato a far data dall'epoca di effettiva realizzazione delle opere (ovvero quarantanni or sono) bensì, solo dal 2010, epoca in cui la Polizia municipale, effettuando un sopralluogo, aveva rilevato l'esistenza del manufatto. Il passaggio di alcuni anni, tra la scoperta dell'abuso e l'adozione del provvedimento di demolizione, non è tale da far sorgere in capo al privato un affidamento tutelabile alla conservazione dell'abuso. Secondo la giurisprudenza amministrativa, la risalenza nel tempo dell'opera, non incide sul potere di repressione dell'abuso da parte della P.A., sicché in sede di emissione dell'ordinanza di demolizione non si richiede "alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto" (Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del 2014 e 6702 del 2012).

...e gioca a sfavore del cittadino
Il proprietario cerca di giustificarsi sostenendo che l'opera era stata realizzata nei lontani anni '70; il decorso del tempo avrebbe ingenerato, nel proprietario, il convincimento che l'opera fosse del tutto legittima. Il Consiglio di Stato fornisce una differente lettura del decorso del tempo sottolineando come tale elemento stia proprio ad indicare che si tratta di opere non precarie, destinate ad un migliore godimento e utilizzo del lastrico solare, destinate ad assolvere una funzione permanente e non transitoria. Il giudice amministrativo ritiene che le dimensioni abbiano il loro peso. Realizzare una struttura di circa 40 mq sul lastrico solare non può non incidere sul profilo e sul prospetto dell'edificio, che ne risulta trasformato, come si evince, peraltro, dalla documentazione fotografica depositata in atti.

Si tratta di una nuova costruzione
Esclusa la qualificazione della struttura realizzata quale opera precaria, rilevata l'improprietà dei richiami giurisprudenziali riferiti a controversie relative a gazebo e ad altre strutture effettivamente precarie, e rimarcata la trasformazione del profilo dell'edificio, rimane ferma la qualificabilità dell'intervento come di nuova costruzione che, come tale, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), e dell'art. 10 del d.P.R. n. 380/2001, avrebbe richiesto il rilascio del permesso di costruire sicché, in assenza del titolo edilizio suddetto, l'opera è stata considerata abusiva.

Il titolare attuale risponde dell'abuso
La realizzazione dell'abuso in epoca antecedente all'acquisto dell'immobile da parte del destinatario dell'ordine di demolizione costituisce un elemento irrilevante. L'art 31 del Dpr n.380/2001 prevde che le misure repressive possano essere irrogate verso il proprietario ovvero verso il responsabile dell'abuso; la circostanza che l'attuale proprietario sia responsabile per la realizzazione dell'opera abusiva da parte del terzo si concilia con l'esigenza di rimuovere l'opera abusiva, cosa che solo l'attuale proprietario può compiere legittimamente. Ad essere precisi la norma (art. 31, comma 2) prevede che il proprietario attuale della costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione e, sotto questo profilo, prescinde dalle indagini sulla responsabilità dell'abuso; il nuovo acquirente, infatti, succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario (Consiglio di Stato, V, 10 gennaio 2007, n. 40).

Immobiliare, la discesa di prezzi delle abitazioni si ferma (forse)

Prezzi delle case fermi nel primo trimestre dell'anno. L'Istat comunica che i listini delle abitazioni hanno fatto registrare complessivamente un ribasso tendenziale medio dello 0,1% mentre sono rimaste perfettamente stabili rispetto al trimestre precedente.

Se si guarda in modo distinto alle due componenti che formano l'indice Istat - cioè i prezzi delle case nuove e i prezzi delle case usate - si nota un diverso andamento. Rispetto al primo trimestre del 2016, mentre i prezzi delle case usate sono rimasti bloccati, quelli delle case nuove hanno visto un leggero calo dello 0,4 per cento. Rispetto invece all'ultimo trimestre del 2016, i listini delle case usate hanno visto un leggero apprezzamento dello 0,2% mentre invece i listini delle nuove abitazioni sono bruscamente scesi dell'1,2 per cento.

Pertanto, l'Istat conclude che la lieve flessione tendenziale dell'indice unico (pari a -0,1%, in attenuazione rispetto al -0,3% del trimestre precedente) «è dovuta esclusivamente ai prezzi delle abitazioni nuove che si riducono dello 0,4%, registrando un'inversione di tendenza rispetto al trimestre precedente quando erano risultati in crescita (+0,5%), mentre quelli delle abitazioni esistenti rimangono stabili (da -0,5% del trimestre precedente) dopo più di cinque anni di variazione trimestrali tendenziali negative».

Che significa? Forse significa che, dopo un lungo periodo di calo dei prezzi, è stato raggiunto il fondo, anche se non si vedono ancora segnali di inversione di tendenza. Scrive l'Istat: «Rispetto alla media del 2010, primo anno per il quale è disponibile la serie storica dell'IPAB, nel primo trimestre 2017 i prezzi delle abitazioni sono diminuiti del 14,9% (-2,6% le abitazioni nuove; -19,9% le esistenti). Sebbene appaia ormai terminata la fase di calo iniziata nel 2012, i prezzi delle abitazioni continuano a non manifestare segnali di ripresa».

La proiezione in verticale determina le spese per rifare il terrazzo di uso esclusivo

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito che i due terzi delle spese per il lastrico solare di uso esclusivo sono a carico dei condomini proprietari individuali delle singole unità immobiliari comprese nella proiezione verticale del lastrico stesso.

La Cassazione interviene nuovamente per dettare le regole relative alla ripartizione delle spese dei terrazzi esclusivi, ponendo un terzo dei costi a carico del proprietario esclusivo e i rimanenti due terzi a carico dei proprietari delle unità immobiliari comprese nella proiezione verticale del lastrico alle quali funge da copertura.

Ciò non toglie che chi cade nella proiezione del terrazzo è pur sempre un condomino a tutti gli effetti e, come tale, è obbligato a concorrere alle spese generali del condominio secondo i millesimi di proprietà.

La ripartizione delle spese secondo la Corte d'appello

Abbiamo un fabbricato composto da due scale, denominate rispettivamente “scala A” e “scala B”.

La lite nasce per la ripartizione delle spese relative al lastrico solare di proprietà esclusiva della “scala B”. Tale lastrico, a quanto pare, serve da copertura non solo agli appartamenti sottostanti, relativi alla “scala B”, ma anche ad alcuni beni comuni ai due corpi scala (galleria pedonale, portico pedonale, portineria, atrio, piani interrati, corselli dei box).

Secondo la Corte d'appello, i costi per il rifacimento del lastrico solare devono essere sostenuti, per un terzo, dal proprietario esclusivo del lastrico e, per i rimanenti due terzi, da tutti i restanti condòmini (ovvero sia da quelli rientranti nella “scala A”, sia da quelli della “scala B”.

La ragione, secondo il giudice d'appello, è semplice: poiché nella proiezione del lastrico solare si trovano beni di proprietà comune ai due corpi scala, è logico che i costi per la ripartizione debbano essere ripartiti tra tutti i condomini.

I motivi dell'appello

Il ragionamento della Corte d'appello non convince alcuni condòmini e la questione finisce sui banchi della Cassazione, chiamata a fornire la giusta interpretazione dell'art. 1126 cod. civ.

Tale norma stabilisce espressamente che «quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.».

I costi quindi, secondo il codice civile, vengono ripartiti in tre parti, di cui una cade a carico del proprietario esclusivo e le rimanenti due «a carico di tutti i condomini».

Individuare il proprietario esclusivo (di norma) non crea difficoltà particolari, mentre il problema riguarda l'individuazione dei soggetti tenuti al pagamento dei rimanenti due terzi. In linea di principio, potremmo avere due diverse alternative: i rimanenti due terzi potrebbero essere divisi tra tutti i condòmini in proporzione al valore millesimale, ovvero esclusivamente tra i condòmini le cui proprietà ricadono nella proiezione del lastrico solare da manutenere.

Il parere della Cassazione

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza del 10 maggio 2017, n. 11484, ha dettato il principio di diritto in base al quale i due terzi delle spese devono essere ripartiti esclusivamente tra i proprietari delle unità immobiliari che si trovano nella proiezione verticale del terrazzo esclusivo (Cass., Sez. II, sent. 25 febbraio 2002, n. 2726; sent. 4 giugno 2001, n. 7472; sent. 15 aprile 1994, n. 3542; sent. 29 gennaio 1974, n. 244; sent. 16 luglio 1976, n. 2821).

L'art. 1126 cod. civ. è derogabile

La Cassazione peraltro sottolinea che l'art. 1126 cod. civ. non è compreso tra le disposizioni inderogabili richiamate dall'art. 1138 cod. civ.; conseguentemente il regolamento del condominio può dettare modalità diverse per la ripartizione delle spese relative alla manutenzione del lastrico solare di uso esclusivo, ponendo le stesse a carico di tutti i condòmini.

In questo caso ovviamente sarà necessario introdurre un'apposita clausola nel regolamento di condominio.

Permesso di costruire, modello unico in vigore dal 20 ottobre

Ai moduli standardizzati (CILA, SCIA e SCIA alternativa al permesso di costruire, CIL per opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, Comunicazione di fine lavori), operativi in tutte le regioni dal 30 giugno, si aggiunge ora anche il modello unico per il permesso di costruire.
Con l’accordo del 6 luglio, infatti, la Conferenza Unificata ha approvato il nuovo modello unico per la richiesta del PdC, aggiornato rispetto allo schema licenziato tra il 2014 e il 2015 per tenere conto delle novità introdotte dal D.Lgs. 126/2016 (cosiddetto decreto SCIA) e dal D.Lgs. 222/2016 (cosiddetto decreto SCIA 2). Si tratta di aggiustamenti formali e non sostanziali.
Le regioni hanno ora tempo fino al 30 settembre prossimo per adottarlo e adeguarlo alle specifiche normative regionali; i comuni, invece, hanno l’obbligo di pubblicare i moduli unici e standardizzati sui siti istituzionali entro il 20 ottobre.
Previste sanzioni per chi non si adegua.

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