Osservatorio sull'edilizia - Presentazione
La qualità dei contenuti de Il Sole 24 ORE insieme all’esperienza di BigMat - il più grande Gruppo europeo di Punti Vendita di materiali per costruire e ristrutturare - sono gli ingredienti fondamentali che hanno portato alla realizzazione dell’"Osservatorio sull’edilizia” che oggi siamo lieti di proporle. Uno strumento periodico di aggiornamento e informazione con una selezione di notizie ed approfondimenti del Gruppo 24 ORE dedicati al mondo dell’edilizia, con particolare attenzione agli aspetti normativi e agli aggiornamenti utili per lo svolgimento della sua professione.
Piattaforma cessionari online per i bonus condominiali
Saverio Fossati, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Tecnici24"
I crediti fiscali ceduti per ecobonus e sismabonus condominiali 2018 sono finalmente disponibili: chi li ha “acquistati”, tecnicamente il «cessionario», potrà accedere alla piattaforma crediti sul sito delle Entrate e, una volta effettuata l’accettazione, i crediti arriveranno nel suo cassetto fiscale. I chiarimenti fanno seguito alla risposta, data dal ministero dell’Economia il 23 marzo in commissione Finanze della Camera, all’interrogazione a risposta immediata 5-01719 (presentata da Raffaele Trano) sull’attuazione delle misure relative alla cessione dei crediti d’imposta relativi a interventi di riqualificazione energetica degli edifici.
L’interrogazione
In quella sede veniva ricordato che in base all’articolo 14, commi 2-ter e 2-sexies, del Dl 63/2013, è prevista la possibilità, al posto della detrazione per le spese per interventi di riqualificazione energetica, di cedere il corrispondente credito ai fornitori che hanno effettuato gli interventi o a altri soggetti privati, con la facoltà di successiva cessione del credito e che l’articolo 16, comma 1-quinquies del decreto, prevede analoga possibilità per gli interventi antisismici effettuati sulle parti comuni degli edifici. Nell’interrogazione si evidenziava che con i provvedimenti del direttore dell’agenzia delle Entrate dell’8 giugno 2017 erano state definite le relative modalità di attuazione ma non erano ancora operative le procedure per cedere il credito ad altri soggetti.
Come si fa
Le Entrate hanno spiegato come fare: il primo passo, per i cessionari, è quello di entrare nella loro area privata, tramite l’area autenticata del sito internet dell’agenzia delle Entrate; poi si deve accedere a: La mia scrivania / Servizi per / Comunicare e cliccare sul collegamento Piattaforma Cessione Crediti . Qui si potrà visualizzare e accettare (o rifiutare) le cessioni dei crediti comunicate all’Agenzia dagli amministratori di condominio. E anche accedere al manuale utente. Dopo l’accettazione, spiega l’Agenzia, i crediti saranno visibili nel “cassetto fiscale” dei cessionari e potranno essere utilizzati in compensazione tramite modello F24, indicando i codici tributo 6890 (ecobonus) e 6891 (sismabonus), secondo le istruzioni indicate con la risoluzione 58/E del 25 luglio 2018. In alternativa, i cessionari potranno comunicare le eventuali ulteriori cessioni dei crediti ad altri soggetti, sempre attraverso la piattaforma. Dove infatti è prevista anche la funzionalità «cessione crediti» oltre a quelle di monitoraggio crediti, accettazione crediti e lista movimenti. L’accettazione e il rifiuto non possono essere parziali e sono irreversibili. Si può usare la piattaforma anche per comunicare le eventuali ulteriori cessioni dei crediti relativi a lavori eseguiti nel 2017, già trasmesse lo scorso anno dagli amministratori di condominio all’Agenzia e già visibili nel cassetto fiscale dei cessionari e utilizzabili in compensazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La nuova finestra danneggia il decoro architettonico?
Donato Palombella, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Quotidiano del Condominio"
I Governi che si sono succeduti negli anni, a prescindere dalle convinzioni politiche, sono d'accordo su un punto: l'edilizia rappresenta il motore dell'economia. Di qui la raffica di agevolazioni fiscali dirette ad incentivare le ristrutturazioni. Fare dei lavori, però, non è semplice e, a volte, dobbiamo fare i conti con l'assemblea di condomìnio, spesso restia ad autorizzare interventi che interessano i beni comuni. La questione, poi, si complica quando gli interventi interessano la facciata; in questo caso, il più delle volte, l'ostacolo maggiore è rappresentato dal decoro architettonico. La Cassazione, chiamata ad esprimersi sulla legittimità dei lavori relativi all'apertura di una nuova finestra, ha chiarito quando possiamo dare il via libera alle opere.
Il caso in esame
Il condomìnio cita in giudizio un proprio condòmino che, a suo dire, aveva aperto arbitrariamente una finestra nel muro condominiale del fabbricato. Il condomìnio si lamenta perché, a quanto pare, l'apertura della nuova finestra avrebbe costituito un uso indebito della cosa comune, capace di compromettere l'estetica del fabbricato, di notevole prestigio e valore storico. La nuova finestra, inoltre, violava le norme in materia di distanze tra costruzioni, tra costruzioni e vedute e tra vedute. Il condomìnio, a questo punto, chiede al Tribunale di condannare il condòmino al ripristino ed al risarcimento dei danni.
Tribunale e Corte a senso alternato
Il Tribunale accoglie la tesi del condomìnio e condanna il condòmino all'eliminazione della finestra. La Corte d'appello, però, è di diverso parere e ribalta l'esito del giudizio. La Corte valorizza la perizia del CTU che aveva evidenziato alcune circostanze: la finestra era visibile solo dal cortile condominiale e dall'ingresso dell'appartamento frontistante; la finestra era del tutto analoga ad altra sottostante finestra, evidentemente aperta in precedenza da altro condòmino, di cui non era stata richiesta l'eliminazione. In virtù di questi elementi il CTU escludeva che la finestra finita sotto la scure dell'assemblea potesse alterare "il decoro architettonico del fabbricato, già compromesso da preesistenti abusi tollerati dal condominio".
La tesi del condomìnio
Il condomìnio impugna la decisione della Corte d'appello che non si sarebbe allineata alla giurisprudenza in virtù della quale "integra alterazione del decoro architettonico qualsiasi intervento, ancorché non deturpante ed ancorché limitato a singoli elementi o punti del fabbricato, che ne modifichi l'aspetto complessivo e lo renda nell'insieme disarmonico". Secondo il condomìnio, la sentenza sarebbe contraddittoria in quanto - da un lato - riconosce l'indiscutibile pregio storico ed architettonico dell'edificio mentre - dall'altro - ritiene indifendibile il decoro architettonico dell'edificio perché "già deturpato da pregressi tollerati interventi".
Si tratta di una questione "di fatto"
La seconda sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10583 del 16 aprile 2019 , pone subito in chiaro un elemento: il problema relativo al decoro architettonico del fabbricato è una questione "di fatto" che non può essere affrontato in cassazione (Cass., sentenza n. 10350 dell' 11 maggio 2011 e sentenza n. 2313 del 7 marzo 1988).
Sul decoro architettonico
La Cassazione chiarisce che, secondo la giurisprudenza in tema di condominio, la compromissione del decoro architettonico non può assumere rilievo in presenza di precedenti interventi che lo abbiano già compromesso (Cass., sentenza n. 26055 del 10 dicembre 2014; sentenza n. 4679 del 26 febbraio 2009 e sentenza n. 21835 del 17 ottobre 2007). Al fine di stabilire se le opere abbiano pregiudicato il decoro architettonico del fabbricato condominiale, devono essere tenute presenti le condizioni in cui quest'ultimo si trovava prima della esecuzione delle opere stesse, con la conseguenza che i lavori non possono essere ritenuti pregiudizievoli se eseguiti su un edificio la cui estetica è stata già compromessa da precedenti lavori.
Via libera ai lavori
La sentenza in esame apre la strada all'esecuzione dei lavori sulle facciate condominiali. Le nostre città traggono origini lontane ed i fabbricati, specie quelli siti nei centri storici, sono caratterizzati da una serie di interventi (diciamocela tutta, non sempre decorosi) che si sono sovrapposti nel corso degli anni. E' difficile trovare una facciata integra! Nella migliore delle ipotesi le facciate sono attraversare da grovigli di cavi di ogni genere - destinati a diventare dei condomini ma... per i piccioni - per non parlare delle montanti del gas. In questa situazione, è difficile pensare che la realizzazione di piccoli lavori quali, per esempio, la posa del condizionatore o della classica "padella satellitare" possano peggiorare la situazione. Certamente occorre agire con prudenza quando le opere, come l'apertura di una nuova finestra, possono concretamente compromettere in maniera definita l'euritmia della facciata principale.
Il catasto è probatorio ai fini del cambio di destinazione?
Donato Palombella, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Tecnici24"
A volte abbiamo la necessità di cambiare la destinazione d'uso di un immobile. A questo punto, sorge la necessità di stabilire se tale operazione richiede o meno il preventivo rilascio di una autorizzazione amministrativa. Di norma il titolo edilizio è necessario quando l'operazione comporta un maggior carico urbanistico; i “soliti furbetti”, però, spesso si limitano ad effettuare la variazione catastale (per esempio da ufficio ad abitazione) senza richiedere il titolo edilizio e senza il pagamento dei relativi oneri concessori. Nel caso in esame il giudice amministrativo è chiamato ad esprimersi sulla legittimità del provvedimento con cui il Comune, basandosi su una semplice ispezione catastale, contesta l'illegittimo cambio di destinazione d'uso.
Il fatto
I proprietari di un immobile con destinazione artigianale - composto da piano terra adibito ad autofficina e primo piano adibito ad abitazione - chiedono un titolo abilitativo per la realizzazione di alcune opere di manutenzione straordinaria. L'amministrazione, a seguito della segnalazione di un vicino, effettuata un sopralluogo riscontrando alcune difformità rispetto all’originaria licenza edilizia (rilasciata per la costruzione di edificio artigianale con annessa abitazione) e alla concessione in sanatoria (rilasciata per la realizzazione abusiva di opere interne ed esterne quali varianti a fabbricato esistente).
Nel corso dell’attività istruttoria il Comune rileva che l’immobile era stato oggetto di cambio di classamento catastale, da D1 a A/2-C/2 -C/6 (ovvero da artigianale a residenziale) non regolarmente assistito dal previo rilascio del necessario titolo edilizio.
Di conseguenza, il responsabile del Servizio Tecnico del Comune emette ordinanza-ingiunzione ordinando la rimozione e demolizione delle opere difformi.
Il parere del TAR
I proprietari impugnano i provvedimenti comunali ottenendone l’annullamento dal TAR Piemonte (sent. n. 1346/2012).
Il giudice di primo grado accerta che il titolo edilizio è stato originariamente rilasciato per la realizzazione di un edificio a destinazione artigianale con annessa abitazione, che l’immobile è sempre stato utilizzato conformemente alla sua destinazione d’uso, fino alla data in cui i proprietari hanno cessato la loro attività economica. Rileva, che l’intervenuta cessazione dell’attività artigianale non poteva comportare alcun effetto sulla destinazione d’uso dell’immobile.
L'Agenzia del territorio è parte in causa?
Il Comune impugna la sentenza del Tar ritenendola illegittima. L'amministrazione, in particolare, si lamenta perché il giudice amministrativo non avrebbe valutato la posizione dell'Agenzia del territorio che, a suo dire, sarebbe un “controinteressato”. Il Consiglio di Stato conferma il verdetto di primo grado ricordando che le amministrazioni pubbliche sono parti necessarie del processo amministrativo solo ove il giudizio verta su atti di impugnazione da loro emessi (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 10 dicembre 2018, n. 6971). Nel caso in esame l'impugnazione riguardava atti del Comune e non dell'Agenzia del territorio.
Il catasto ha valore solo ai fini fiscali
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sent. n. 2628 del 24 aprile 2019, ricorda che, secondo la giurisprudenza l'accatastamento «rappresenta una classificazione di ordine tributario, che fa stato a quegli specifici fini, senza assurgere a strumento idoneo - al di là di un mero valore indiziario - per evidenziare la reale destinazione d'uso di singole porzioni immobiliari e della relativa regolarità urbanistico-edilizia (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 21 gennaio 2015, n. 177)».
Dove sbaglia il Comune
Il giudice d'appello chiarisce per quale motivo la posizione del comune non può essere condivisibile. L'amministrazione si limita a ritenere che la variazione catastale abbia determinato una variazione urbanistica dell'immobile ma non chiarisce quali siano state le opere edilizie che abbiano comportato tale mutamento di destinazione. In altre parole, il Comune avrebbe dovuto effettuare una verifica di carattere prettamente urbanistico ed edilizio in merito al mantenimento o all’eventuale mutamento della destinazione d’uso (accompagnato o meno da opere) eseguita a fronte dei titoli edilizi legittimamente emessi. Dall'esame dei provvedimenti impugnati non si comprende quale siano i lavori che abbiano comportato un abusivo cambio di destinazione d’uso e quale sia il maggior carico urbanistico conseguente a tale mutamento.
Il cambio di destinazione
Il mutamento di destinazione d'uso ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un'altra e comporta un differente carico urbanistico. Il cambio di destinazione può essere effettuato mediante l'esecuzione di opere materiali ovvero anche senza la loro realizzazione, mediante un mutamento d'uso “di fatto”. In entrambi i casi, il cambio di destinazione d'uso diventa rilevante ai fini sanzionatori ove comporti un maggior carico urbanistico o un aggravio di servizi (si pensi, per esempio, al maggior numero di parcheggi nelle aree antistanti o prossime l'immobile).
Quando il cambio d'uso è rilevante
Il mutamento di destinazione d'uso diventa giuridicamente rilevante quando abbia comportato una passaggio tra diverse categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, come accade nel passaggio dalla destinazione industriale a quella commerciale (Cons. Stato, Sez. VI , sent. 25 settembre 2017, n. 4469).
Il catasto non fa testo
Nel caso in esame il Comune non avrebbe dimostrato il maggior carico urbanistico ma si sarebbe limitato ad effettuare degli accertamenti catastali. Il sopralluogo ha dimostrato che la parte dell'immobile destinata a laboratorio artigianale era ormai in “disuso” ma ciò era dovuto alla cessazione dell’attività economica in precedenza ivi svolta e non ad un effettivo cambio di destinazione dell'immobile.
Sebbene abbia i requisiti di abitabilità, il locale ad uso magazzino resta tale perché difforme dal titolo abilitativo rilasciato
Angelo Pesce, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Tecnici24"
Il locale a piano terra, pur in regola con le norme di igiene, sicurezza, salubrità e risparmio energetico previste per il certificato di abitabilità (D.P.R. 380/2001, art. 24), è sanzionabile dal punto di vista urbanistico-edilizio perché è stato realizzato in difformità al titolo edilizio rilasciato e non può modificare la propria destinazione d’uso originaria di magazzino. È quanto emerge da una recente sentenza del TAR Toscana, sez. III, la n. 348/19.
La genesi dell’immobile e delle pratiche edilizie. Il locale in questione rientra fra i 4 fondi, ad uso magazzino, realizzati al pian terreno di un edificio abitativo di due piani costruito con regolare licenza edilizia nel 1956; già l’anno dopo l’immobile otteneva il certificato di abitabilità che veniva allargato, oltre agli appartamenti del 1° e 2° piano, anche ai locali a pian terreno e come tali accatastati e commercializzati.
Nel 2012 la stessa proprietaria, consapevole della difformità fra l’effettiva destinazione d’uso e i titoli edilizi a suo tempo rilasciati, in previsione di interventi di ristrutturazione e cambio di destinazione (da magazzino ad abitazione) sui predetti locali, presentava domanda di accertamento di conformità in sanatoria; tale sanatoria doveva anche verificare la variazione di altezza interna dei fondi (da 2,70 ml. di progetto ai 2,58 ml. effettivi) eseguita in corso d’opera all’atto della costruzione dell’immobile (1956), che dunque differiva da quanto autorizzato dal titolo edilizio rilasciato; inoltre, gli stessi locali-magazzino erano stati erroneamente qualificati quali appartamenti nel certificato di abitabilità del 1957, con altezza interna dichiarata pari a 2,30 m., ben al di sotto dei 2,70 m. previsti quale requisito minimo per l’abitabilità.
A seguito di quanto richiesto dalla proprietaria, il Comune rilasciava l’attestazione di conformità in sanatoria (L.R. 1/2005, art. 140, co. 6), regolarizzando i locali a piano terra ad uso magazzino, ma frazionati in più locali (di altezza diversa da quella autorizzata a suo tempo), diversificandoli da quanto riportato nella licenza edilizia del 1956 che li vedeva accorpati in un unico vano.
L’anno successivo, nel 2013, veniva presentata dalla proprietà una SCIA per interventi di ristrutturazione interna finalizzati al cambio di destinazione d’uso da magazzino ad abitazione civile. In risposta a tale richiesta, il Comune invitava la titolare a dimostrare la conformità dell’intervento alle norme del Regolamento Urbanistico e del Regolamento Edilizio Unificato vigenti, affidando la pratica all’Avvocatura comunale; a seguito di accertamenti che dimostravano l’incongruità delle altezze dei locali a pian terreno (per i quali era stata anche inoltrata istanza di condono per il cambio di destinazione d’uso), il Comune dichiarava nulla la SCIA.
La controversia. Al provvedimento comunale faceva ricorso la proprietaria, e lo stesso Comune si costituiva in giudizio. Da par suo la titolare dei locali dichiarava che la destinazione d’uso abitativa era accertata sin dal 1957 (come legittimata dal certificato di abitabilità) e dunque aveva piena validità anche in termini edilizi e urbanistici.
Tuttavia, il Comune chiarisce che ad oggi il certificato di abitabilità/agibilità, è regolato dal D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) che, all’art. 24, accerta sia la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico dell’edificio e degli impianti in esso installati, così come previsto dalla normativa vigente, sia la conformità dell’opera al progetto presentato (attestati mediante segnalazione certificata).
A fronte di questo, è bene chiarire che il certificato di agibilità e il titolo edilizio per la costruzione dell’immobile (permesso di costruire), sono fra loro indipendenti, nel senso che il primo accerta il rispetto delle norme tecniche relative a sicurezza, igiene, salubrità, ecc., mentre il secondo il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche; nel caso in esame, siamo di fronte ad un “paradosso possibile”: costruzione realizzata in difformità del titolo edilizio concesso, ma agibile perché in linea con le norme tecniche di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico. Pertanto, essendo difforme dal progetto approvato e autorizzato, è sanzionabile dal punto di vista edilizio-urbanistico.
Altro punto della controversia è il Regolamento Urbanistico comunale; la proprietaria afferma che il frazionamento e il cambio di destinazione d’uso sono consentiti in base all’art. 79, co. 1, lett. c); anche qui il Comune chiarisce che il frazionamento è consentito solo se sussistono due condizioni: a) che le unità residenziali risultanti dal frazionamento abbiano una superficie utile netta non inferiore a 65 mq; b) che ad ogni unità edilizia corrisponda almeno un posto auto pertinenziale; in merito al cambio di destinazione d’uso da superficie accessoria a superficie utile, è consentita solo per unità immobiliare di superfici = 96 mq. (e nel caso in esame, non sussistono queste condizioni.
In conclusione, viene respinto il ricorso della proprietaria dei locali a pian terreno e confermata l’illegittimità della SCIA presentata per gli interventi di ristrutturazione finalizzati al mutamento della destinazione d’uso da magazzino a civile abitazione.
Nel 2019 compravendite in crescita del 2%, prezzi in rialzo solo nelle grandi città
Emiliano Sgambato, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Casa24 online"
Proseguirà anche nel 2019 la crescita delle compravendite, ma in netta frenata rispetto al 2018. Con i prezzi medi che proseguiranno il percorso verso una sostanziale stabilizzazione, ma con il segno più che sarà appannaggio solo delle città più dinamiche (e limitatamente alle zone di pregio), sull’onda di quello che è già avvenuto nell’ultimo periodo. È la previsione contenuta nel Report presentato questa mattina a Roma dagli agenti immobiliari della Fiaip, che più nel dettaglio a livello nazionale prevede per il 2019 una crescita delle compravendite del 2% (contro il +6,5% del 2018).
Per Fiaip l’offerta continuerà a essere più forte della domanda, per cui «i valori degli immobili faticheranno a salire in molte aree del Paese nel corso dell’anno». Fanno eccezione città come Milano, Napoli Bologna e Firenze, per cui si prevede un trend positivo anche nel 2019, ma «nel complesso si conferma un andamento altalenante segnato da una debolezza della dinamica dei prezzi».
Si prevede inoltre «una stabilizzazione dei canoni di locazione in molte città metropolitane dove si registra una buona dinamicità e dove oggi si fanno ottimi affari per immobili da mettere a reddito, in particolar modo nelle città d'arte dove il mercato della ricettività alternativa a quella alberghiera è in netta crescita, così come nelle principali località turistiche». Il rendimento potenziale lordo, a seconda della tipologia di immobili, si consolida tra il 4 e il 6%.
«Si fotografa un mercato immobiliare che segna un progressivo cambiamento di passo – commenta Mario Condò de Satriano, presidente del Centro Studi Fiaip – ma che non evidenzia, ad oggi, una crescita consolidata. L’aumento della domanda immobiliare e delle compravendite, in particolar modo nei comuni capoluogo, arriva in un momento di forte incertezza per i mercati. Sull’andamento del mercato ha pesato il lungo periodo di incertezza politica, il contestuale innalzamento dello spread e permangono i timori sul debito italiano e sulle prospettive macroeconomiche entro le quali verrà scritta la prossima manovra di bilancio. Il mercato, nonostante il costante aumento delle transazioni immobiliari, evidenzia tutta la sua fragilità, con l’assenza di una crescita dei valori, rispetto al resto d’Europa».
Il mercato resta comunque debole: «Senza un continuo ricorso all’indebitamento – sottolineano da Fiaip – non sarà possibile per la maggior parte degli italiani colmare il gap tra la disponibilità patrimoniale e i valori di mercato», che ancora non ha beneficiato «di politiche fiscali che potrebbero altresì permettere un abbassamento della pressione fiscale complessiva sulla casa». E ancora: «Nonostante le prime misure varate dall’esecutivo legate alla cedolare secca per le locazioni per i negozi e al decreto crescita manca, ancora, un piano di sviluppo complessivo per l’immobiliare che possa attivare più investimenti nel settore e aiutare così la ripresa economica di medio e lungo termine sia nel residenziale che nel terziario e commerciale».
Il bilancio 2018
Nel 2018 le compravendite sono cresciute complessivamente del 6,6%. I prezzi delle abitazioni sono diminuiti del -2,5% su base annua, mentre nel non residenziale le quotazioni sono scese del 4,3% per i negozi, del 4,7% per gli uffici e del -5,3% per i capannoni. Si registra una minima crescita delle transazioni di negozi + 0,5%, mentre diminuiscono il numero di compravendite nel commerciale e nel terziario.
Si riducono i tempi di vendita: i dati rilevati per il 2018 indicano una percentuale in diminuzione per il tempo medio di vendita per immobili a uso abitativo che è scesa nel range tra 3 e 6 mesi per la maggior parte del campione intervistato (38%). Diminuisce, rispetto al 2017, il periodo intercorso tra l'incarico e la vendita da 6 a 9 mesi (28%) e oltre 9 mesi (12%). Solo il 4% dei contratti viene concluso entro un mese.
Aumenta per il 59% degli intervistati la domanda di abitazioni. Il 70% delle compravendite avviene con il ricorso al sistema creditizio, con un netto aumento di richieste ed erogazioni rispetto al 2017. Le unità residenziali maggiormente compravendute sono per il 73% trilocali e il 13% bilocali.
Prevalgono zone semicentrali e centrali e alloggi usati (ma in buono stato per il 70%), seguiti dalle abitazioni da ristrutturare (18%).
L’approfondimento degli agenti Fiaip in nove realtà urbane, evidenzia una crescita dei prezzi per le abitazioni a Bologna (+2,7%), Milano (+6,2%) Firenze (+2,3%) Napoli (+ 1,8%), Palermo (+1,9%). Le diminuzioni si registrano su base annua a Roma (-1,5%), Torino (- 1,1 %), Cagliari (- 1,5%) Genova (-1,7%).
Un mercato più efficiente
Grazie alla collaborazione della Fiaip con l’Enea e l’Istituto per la Competitività (I-Com) è stato effettuato anche il monitoraggio del mercato in funzione delle caratteristiche energetiche degli edifici. Nonostante l’importante peso che hanno gli immobili di classe G, diminuisce il loro impatto sul mercato: nel 2018 era in questa classe il 37% delle villette e del 46% delle ville unifamiliari, contro rispettivamente il 54% e il 67% del 2017. Il miglioramento della situazione è testimoniato anche «dalla diminuzione della percentuale di immobili compravenduti appartenenti alle ultime quattro classi energetiche (D-G) rispetto all'anno precedente»: nel 2017 superava il 90%, nel 2018 è pari a circa l’80%. Crescono anche gli compravenduti nelle prime tre tipologie energetiche (+6%) ed il numero di quelli oggetto di ristrutturazione (+12%).
Rumore, vale la «normale tollerabilità»
Sergio Talamo, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Tecnici24"
Negli ultimi mesi il panorama normativo e lo schema delle regole riguardanti l’acustica e la protezione degli immobili dal rumore si sono arricchiti di nuovi riferimenti.
Le linee guida europee sul rumore ambientale, pubblicate dall’Organizzazione mondiale della sanità nell’ottobre 2018 hanno mostrato nuove evidenze di correlazione tra salute (fisica e mentale) ed esposizione al rumore prodotto dalle infrastrutture di trasporto (aereo, ferroviario e stradale) e da altre sorgenti come le attività del tempo libero e il rumore del vicinato. Ma quali sono i riferimenti da considerare nell’ordinamento legislativo e normativo italiano?
L’articolo 32 della Costituzione stabilisce che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e la legge 447/95 definisce l’inquinamento acustico come introduzione di rumore tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute, deterioramento dell’ambiente abitativo.
A questa definizione possono riferirsi le azioni giuridiche di tutela della persona e della proprietà, espresse dall’articolo 844 del Codice civile, caposaldo della giurisprudenza sulle immissioni disturbanti, secondo cui il proprietario di un immobile deve impedire le immissioni di rumore provenienti dal fondo del vicino quando superano la normale tollerabilità.
Il comma 746 della legge di bilancio 2018 rende esplicito il riferimento alla legge 447/95 e ai suoi decreti attuativi.
Questo riferimento deve essere «fatto salvo» nell’accertare la normale tollerabilità, lasciando comunque ai giudici il compito di decidere se un determinato rumore, al pari di altre immissioni moleste (fumi, odori, polveri), anch’esse normate dall’articolo 844 del Codice civile, possiede caratteristiche di ampiezza, frequenza, continuità, impulsività tali da rappresentare una fonte di disturbo intollerabile per chi lo ascolta.
Tra le norme che si uniscono alla legge 447/95 e agli articoli del Codice civile nella regolamentazione del rapporto tra rumore e valore degli immobili vi è la recente Uni 11728:2018 che riguarda la pianificazione e la gestione del rumore prodotto dai cantieri.
È una norma importante che disciplina i rapporti fra committente e appaltatore considerando la rumorosità delle attività di cantiere e i suoi effetti sugli ambienti abitativi.
L’inserimento delle aree di cantiere nei contesti urbani determina infatti problematiche di impatto acustico e vibrazionale sugli immobili che si identificano come vere e proprie lesioni o come immissioni moleste che ne riducono il valore, riducendo il comfort per chi li abita.
Considerando che i tempi di permanenza dei grandi cantieri in prossimità di aree abitate spesso si prolungano oltre il previsto, si può con gli strumenti dell’estimo quantificare un significativo deprezzamento degli immobili impattati dal cantiere.
Questo può essere temporaneo (si pensi ai minori introiti di locazione derivanti da mancato o ridotto utilizzo dell’immobile) o assoluto (invecchiamento del bene).
Nel caso di cantieri che riqualificano l’area ove insiste l’immobile impattato, si può ovviamente considerare anche un possibile incremento di valore successivo alla realizzazione dell’opera oggetto di cantierizzazione impattante.
Il completamento dell’opera può determinare un miglioramento della fruibilità del bene (nuovi servizi, trasporti, riqualificazione dell’area) e può rappresentare una parziale compensazione del deprezzamento che è comunque proporzionale al tempo di permanenza del cantiere e alle capacità di resistenza e resilienza di chi abita nell’immobile o lo utilizza nelle condizioni di sofferenza acustica che il cantiere inevitabilmente determina.
Telecamere che inquadrano la via, si può installarle anche se i vicini sono infastiditi
Emiliano Sgambato, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Quotidiano del Condominio"
Non è colpevole del reato di violenza privata il proprietario che istalla le telecamere di sicurezza sul muro perimetrale della sua proprietà dato che, anche se riprende la pubblica via, il suo intento non è quello di danneggiare le persone o ledere la loro privacy, ma solo quello di difendere i beni e gli abitanti della casa.
Questo il principio espresso dalla sentenza Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 13 maggio 2019 numero 20527.
La vicenda comincia con la condanna di due soggetti per il reato di violenza privata.
Tale fattispecie, prevista e punita dall'articolo 610 del Codice Penale, prevede che «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni».
La condotta tenuta dagli imputati era stata quella di istallare delle telecamere di sicurezza sul muro perimetrale della loro proprietà, ma dirette sulla pubblica via.
La presenza di queste apparecchiature aveva comportato lamentele da parte dei vicini, i quali affermavano anche di avere ricevuto rimproveri e minacce di denunce dagli imputati per i loro comportamenti.
A seguito della condanna in primo grado, i due vicini agivano in appello, domandando la riforma della sentenza e la loro assoluzione.
La Corte d'Appello, tuttavia, ribadiva la condanna irrogata dal Tribunale, modificando solamente il trattamento sanzionatorio.
I due condannati depositavano quindi due ricorsi in Cassazione con i quali lamentavano la violazione da parte della Corte d'Appello dell'articolo 610 del Codice Penale e chiedevano quindi la riforma della sentenza.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, accoglieva i ricorsi dei condannati.
Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici di merito avevano errato nell'interpretare la fattispecie di reato connessa al caso in questione.
Nel caso in oggetto, infatti, non era secondo la Cassazione contestabile il reato di violenza privata.
Al fine della consumazione di tale fattispecie delittuosa doveva verificarsi una grave violazione della libertà individuale delle vittime, perpetrata dai colpevoli tramite violenza o minaccia.
Secondo la Corte, poi, la nozione di violenza era riferibile a qualsiasi atto posto in essere dall'agente che si risolva nella “coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo, che viene così indotto, contro la sua volontà a fare, tollerare o omettere qualche cosa, indipendentemente dall'esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico ” (così nella sentenza in commento, che richiamava Cass. 1176/2013).
Nel caso in oggetto, tuttavia, l'esame della fattispecie avrebbe dovuto comportare l'assoluzione dal reato di violenza privata in quanto non sussistevano gli elementi soggettivo e oggettivo a sostegno della condanna.
Dal punto di vista dell'elemento soggettivo, i soggetti agenti delle condotte non avevano – pacificamente – come scopo quello di nuocere ai vicini e passanti, violando la loro privacy e cagionando una variazione delle loro abitudini (ad esempio il riferito cambio di itinerario di alcuni passati per non essere ripresi).
Dato che l'intento principale dei condannati era quello di difendere cose e persone all'interno delle loro abitazioni, i pregiudizi lamentati dalle vittime della condotta non erano voluti.
Dal punto di vista dell'elemento oggettivo, continuava la Cassazione, l'istallazione delle telecamere non era di per sé una condotta illecita, né lo erano le concrete modalità di attuazione delle riprese.
I condannati, infatti, avevano provveduto ad affiggere cartelli informativi delle riprese, segnalando la presenza delle telecamere a tutela della privacy dei terzi.
Nonostante i lamentati pregiudizi subiti dai vicini, quindi, non si sarebbe verificata nel presente caso “l'offesa al bene giuridico protetto dalla norma di cui all'art. 610 cod. pen., trattandosi di condizionamenti minimi indotti dalle condotte de quibus, tali da non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione”.
Nel caso in questione, quindi, il reato non si era consumato, dato che occorreva operare un contemperamento tra le esigenze di riservatezza dei terzi (peraltro ragionevolmente limitate, trovandosi il luogo della condotta su una via pubblica) e le esigenze di sicurezza dei soggetti-agenti.
Alla luce delle predette considerazioni la Cassazione, all'esito del giudizio, annullava la sentenza di appello senza rinvio, concludendo che «non è configurabile il delitto di violenza privata allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un “pati”, ma siano essi stessi produttivi dell'effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa».
Gli usi legittimi del box auto
Anna Nicola, Il Sole 24 ORE, Estratto da "Quotidiano del Condominio"
Il singolo condomino può utilizzare il proprio box auto anche per scopi diversi da quelli del rimessaggio del veicolo.
L'amministratore di condominio non gli può impedire di utilizzare il box auto di sua proprietà esclusiva a uso magazzino.
La giurisprudenza afferma il diritto del singolo di usare il proprio bene privato nel modo che ritiene più consono e opportuno alle sue esigenze, semprechè naturalmente sia nel pieno rispetto delle disposizioni normative (Cassazione civile, 27 giugno 2014 n. 14671).
Nel caso del Tribunale di Roma dell'8 gennaio 2019 si è appurato che nessuna dimostrazione è stata data o soltanto offerta che eventuali limitazioni delle facoltà d'uso siano state efficacemente imposte e accettate da un valido e vincolante regolamento condominiale.
Occorre che venga rispettata la destinazione del bene e non si violino le prescrizioni urbanistiche relative all'accatastamento, come osservato dalla Suprema Corte (Cass. sent. n. 14671/2014)
Si legge, infatti, in questa decisione che <<a nulla rileva il fatto che l'immobile per cui è causa ha avuto nel passato una destinazione d'uso diversa (a magazzino e non a garage), trattandosi comunque, in relazione all'utilizzazione a garage, di uso lecito e conforme al titolo di proprietà e alle norme; resta infatti fermo il diritto del proprietario di poter usare il suo bene nella maniera ritenuta opportuna, e nessun rilievo può avere l'uso diverso effettuato nel passato. Si deve notare, in proposito, che gli accessi risultano realizzati insieme all'intero caseggiato; la loro sola esistenza dimostra il diritto di utilizzarli nel modo proprio delle porte, cioè quello di dare accesso ai locali cui sono asserviti (accesso evidentemente strutturato sin dall'origine del bene per l'ingresso di automobili, come dimostra la larghezza degli ingressi)>>.
La Cassazione rileva quindi che non vi sono preclusioni allo sfruttamento di un immobile per uso commerciale benché accatastato quale box auto. L'importante è che tale suo utilizzo sia consentito (ossia non vietato espressamente dalla legge) e sia conforme al titolo di proprietà. Resta infatti fermo – si legge in sentenza – il diritto del proprietario di poter usare il proprio bene nella maniera che più egli ritiene opportuna. E ciò a prescindere dall'uso diverso che, nel passato, ne ha fatto.
L'assemblea di condominio non può opporsi all'utilizzo dell'immobile, da parte del suo proprietario o dell'eventuale locatario, per finalità commerciali, di deposito di strumenti e attrezzi per l'attività o la professione, ecc.
Si tratta di principi ripresi dalla decisione, già menzionata, del Tribunale di Roma dell'8 gennaio 2019
L'utilizzo di un box auto come ufficio o studio, se non in contrasto con i regolamenti condominiali, è consentito nell'eventualità di modifica di destinazione d'uso.
Potrebbe costituire oggetto di discussione la qualifica di condomino in capo al soggetto che è proprietario del solo posto auto. Questo tema è stato risolto dalla Suprema Corte con la decisione n. 884 del 16 gennaio 2018 sulla cui base si è affermato che la nozione di condominio si configura non solo nell'ipotesi di fabbricati che si estendono in senso verticale ma anche nel caso di beni adiacenti orizzontalmente, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dall'art. 1117 c.c. Rientrerebbero nella nozione di condomini non solo i proprietari di appartamenti o box, ma anche coloro che abbiano il solo posto auto scoperto all'interno del condominio.