Osservatorio sull'edilizia - Presentazione

La qualità dei contenuti de Il Sole 24 ORE insieme all’esperienza di BigMat - il più grande Gruppo europeo di Punti Vendita di materiali per costruire e ristrutturare - sono gli ingredienti fondamentali che hanno portato alla realizzazione dell’"Osservatorio sull’edilizia” che oggi siamo lieti di proporle. Uno strumento periodico di aggiornamento e informazione con una selezione di notizie ed approfondimenti del Gruppo 24 ORE dedicati al mondo dell’edilizia, con particolare attenzione agli aspetti normativi e agli aggiornamenti utili per lo svolgimento della sua professione.

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Ristrutturazione degli edifici, dalla Commissione UE le Linee guida per gli Stati Membri

Il Sole 24 ORE – Estratto da "Tecnici24"

Con la Raccomandazione (UE) 2019/786 dell'8 maggio 2019 sulla ristrutturazione degli edifici (in G.U.U.E. L 127 del 16 maggio 2019), in sede di recepimento dei requisiti fissati dalla direttiva (UE) 2018/844 (Prestazione energetica nell'edilizia e Efficienza energetica), la Commissione UE ha indicato per gli Stati membri delle linee guida per strategie di ristrutturazione a lungo termine.

Gli approcci per una ristrutturazione efficace, in base a queste Linee guida, passano per una rassegna del parco immobiliare nazionale basata su campionamenti statistici e sulla prevista percentuale di edifici ristrutturati, attraverso una individuazione di approcci alla ristrutturazione efficace in termini di costi, in base al tipo di edificio e alla zona climatica, tenendo conto, laddove possibile, delle potenziali soglie di intervento nel ciclo di vita degli edifici, e mediante politiche e azioni volte a stimolare ristrutturazioni degli edifici profonde ed efficaci in termini di costi, comprese le ristrutturazioni profonde per fasi successive, ad esempio attraverso l'introduzione di un sistema facoltativo di «passaporti» di ristrutturazione degli edifici, con politiche e azioni rivolte anche a tutti gli edifici pubblici.

Gli Stati membri sono quindi invitati a stabilire una tabella di marcia, finalizzata a una ristrutturazione efficace nel rispetto delle misure di efficienza energetica individuate nella direttiva (UE) 2018/844.

Ecobonus, possibile cedere lo sconto anche solo in parte

Matteo Rezzonico, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Quotidiano del Condominio"

Il puzzle infinito della cessione del credito fiscale per l’ecobonus si è arricchito di alcuni importanti tasselli con le risposte fornite dall’agenzia delle Entrate in occasione di Dichiarazioni24 , l’iniziativa del Sole sulle dichiarazioni dei redditi 2019.

Le prime tessere erano state messe a gennaio 2017 (legge 232/2016), da quando è diventato possibile cedere le detrazioni fiscali del 65%, anziché utilizzarle nella dichiarazione dei redditi in dieci quote annuali. È così diventato possibile prima per i soli interventi sulle parti comuni condominiali e poi, dal 2018, anche per unità immobiliari singole, cedere il credito d’imposta alle imprese che hanno effettuato gli interventi o anche ad altri soggetti privati, con la facoltà di successiva cessione del credito. Con divieto di cessione a banche e intermediari finanziari (la potevano fare solo gli «incapienti» con redditi sotto gli 8mila euro annui).

Ma con la circolare 11/E/2018 le Entrate hanno di fatto eliminato il divieto, chiarendo che cessionari potevano essere anche altri soggetti privati purché «collegati al rapporto che ha dato origine alla detrazione», in genere con un consorzio. Poi, con altri interventi (provvedimenti prot. 165110/2017 e 108572/2017), l’Agenzia ha finalmente spiegato la procedura della cessione del credito per gli interventi condominiali e (prot. 100372/2019) e sulle singole unità immobiliari. Un tassello anomalo è stato aggiunto dal Dl 34/2019 (decreto Crescita), che ha tracciato una via parallela: possibile cedere il credito in cambio dell’intero importo (senza, cioè, sconti a favore del cessionario) a imprese che lo portino in compensazione (senza ulteriori cessioni) in cinque anni. Ma si tratta solo di imprese con volume d’affari adeguato e imposte in proporzione.

La materia è diventata talmente farraginosa da rendere necessari interventi sull’applicazione. E con le risposte pubblicate venerdì sul Sole 24 Ore ( www.dichiarazioni24.com ) diventa possibile chiarire parecchi dubbi. A cominciare da quello di chi vorrebbe conservare come detrazione una parte del bonus (la cessione, infatti, di regola, comporta uno sconto a favore del cessionario): per le Entrate è possibile, se si tratta di unità immobiliari singole, quando la spesa riguarda più imprese. Il contribuente potrà scegliere a chi cederlo e a chi no e detrarre personalmente il resto. Chiarita anche la questione delle parti comuni condominiali: quando il condomino incapiente cede il suo credito con lo sconto (quindi copre meno del 100% della sua quota millesimale di spese), l’amministratore farà il bonifico parlante all’impresa solo per la quota restante, a fronte di una fattura che indica invece tutto l’importo.

Infine, le Entrate hanno precisato che nella dichiarazione dei redditi (730 o Redditi PF) non va indicato nulla sulla cessione del credito.

 

Frazionamento dell'unità immobiliare e ripartizione delle spese comuni

Davide Laurino, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Tecnici24"

Con sentenza 3 giugno 2019, n. 15109, la Corte di Cassazione ha chiarito che in caso di frazionamento di un’unità immobiliare in due (o più) distinti appartamenti, non è sempre necessaria la revisione delle tabelle millesimali ai fini del calcolo degli obblighi di contribuzione alle spese; sufficiente essendo – in caso di frazionamento non comportante una “notevole alterazione” del rapporto tra i valori dei singoli piani o porzioni esso – il normale criterio di riparto di cui all’art. 1123 c.c.

Il caso
Nel contesto di un condominio fiorentino, si addiveniva alla creazione di una nuova e indipendente unità immobiliare mediante il frazionamento orizzontale dell’originariamente unico appartamento in due distinte porzioni, le quali, in seguito all’intervento, venivano alienate a due distinti soggetti divenuti perciò nuovi condòmini.

La modificazione strutturale, comportando l’aumento delle unità immobiliari presenti all’interno dello stabile, portava con sé la necessità di individuare il nuovo criterio di ripartizione delle spese condominiali.

La fattispecie e le soluzioni prospettabili
Tra i nuovi condòmini e l’ente di gestione, nella specie, sorgeva un contrasto circa la necessità di modificare le tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio (art. 68 disp. att. cod. civ.)  al fine di individuare correttamente il quantum contributivo spettante ai nuovi proprietari.

Due le tesi sul tappeto
Secondo la prima, sostenuta dal condominio, la modifica strutturale avrebbe – di per sé – determinato un’alterazione del rapporto tra i valori delle unità presenti all’interno dello stabile. In altri termini, pur a parità di cubatura, senza cioè interventi edilizi comportanti un’alterazione dell’edificio nel suo complesso, il frazionamento dell’originaria unità immobiliare in due distinte abitazioni comporterebbe una variazione tra l’originario valore (espresso in millesimi) attribuito alla porzione prima del frazionamento e il valore, in termini di sommatoria, da attribuirsi alle nuove. Logicamente, secondo tale argomentare, sarebbe necessario addivenire ad una modificazione – ex art. 69 disp. att. cod. civ. – delle tabelle millesimali predette, riproporzionando in relazione ai millesimi il valore sia delle nuove che delle già presenti unità immobiliari in proprietà esclusiva. Tale soluzione, a parere della compagine condominiale resistente, comportava la necessità di continuare, nelle more del procedimento di modificazione di cui al citato art. 69, a parametrare la divisione delle spese alle vigenti tabelle.

A tale argomento si opponeva quello dei ricorrenti, i quali propendevano per l’inconferenza della disposizione di attuazione, testualmente applicabile (a seguito della novella di cui all’art. 23, L. 11 dicembre 2012, n. 220), tra gli altri, al caso di «incremento … delle unità immobiliari» purché risulti «alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino» (art. 69, co. 1, n. 2, disp. att. cod. civ. – nella previgente formulazione della norma, in vigore sino al 17 giugno 2013, i valori proporzionali delle unità immobiliari potevano essere modificati quando «per le mutate condizioni di una parte dell’edificio … è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori» delle stesse). Secondo tale ragionamento basterebbe pertanto l’applicazione della regola generale di cui all’art. 1123, co. 1, cod. civ., essendo da ricomprendere in essa anche l’ipotesi di aumento delle unità immobiliari che non abbia tuttavia comportato la “notevole alterazione” richiesta dalla legge.

La questione non è meramente teorica, avendo viceversa conseguenze pratiche di non poco momento posto che, da un lato, la delibera di modificazione potrebbe essere presa con la più elastica maggioranza di cui all’art. 1136, co. 2, cod. civ. e, dall’altro, in base all’ultimo inciso dell’art. 69, co. 1, n. 2, disp. att. cod. civ., i costi dell’operazione di adeguamento delle tabelle millesimali ricadono sulla parte che «ha dato luogo alla variazione».

Alla seconda delle ricostruzioni accennate aderisce la S.C., con importanti conseguenze in ordine ai doveri dell’amministratore di condominio.

I doveri dell’amministratore circa la ripartizione delle spese dopo il frazionamento
A monte del ragionamento, infatti, vi è il riconoscimento di un obbligo di attivarsi incombente sull’amministratore nelle situazioni suesposte. Sconfessando la necessaria applicazione della procedura indicata nell’art. 96 disp. att. cod. civ., infatti, l’amministratore sollecitato del problema non potrebbe opporre la mancanza di poteri idonei a fronteggiarlo giusta la necessità di modificare le tabelle millesimali.

Il frazionamento dell’originariamente unica unità immobiliare in distinte porzioni (sui cui limiti, convenzionali e legali, v. Cass., Sez. II, 24 giugno 2016, n. 13184), comportando la diversa intestazione della quota millesimale, impone all’amministratore di adeguare le regole di gestione alla mutata situazione fattuale. Non è necessario infatti che la modificazione materiale abbia in concreto assunto quei caratteri di “notevole alterazione” – specificata dalla novella del 2012 in termini di mutamento del rapporto tra i valori superiore al quinto – ai quali unicamente la legge riconduce il potere di modificazione delle tabelle millesimali a maggioranza.

In altri termini, il dovere dell’amministratore di condominio di adeguarsi, nella divisione delle spese, al mutato contesto non scatta soltanto in presenza dei requisiti predetti, e non si sostanzia unicamente nel potere di cooperare al fine di modificare le tabelle millesimali (ad es. convocando l’assemblea e fissando il relativo ordine del giorno), dovendo viceversa lo stesso «aggiornare i propri dati alla realtà della composizione dell’edificio, ai fini del riparto, eventualmente consultando i registri immobiliari». Circa tale ultimo incombente, peraltro, tenendo presente la necessità di distinguere le conseguenze del frazionamento in ambito privatistico-condominiale dagli obblighi latamente pubblicitari ad esso relativi. Tra questi ultimi, in particolare, quello concernente la dichiarazione da effettuarsi al catasto, ad onere del proprietario, al fine di ottenere sia l’adeguamento dei dati catastali alla nuova conformazione interna dell’immobile che l’attribuzione di un identificativo autonomo a ciascuna nuova unità immobiliare.

Sintesi
Ricapitolando schematicamente il decisum della S.C.:

-non vi sarebbe alcun automatismo tra frazionamento dell’unità immobiliare e necessità di modificazione delle tabelle millesimali;

-il frazionamento incide sulle tabelle solo indirettamente, dovendo in ogni caso l’amministratore e, se necessario, l’assemblea, provvedere ad adeguarsi rispetto alla mutata situazione fattuale;

-il potere di adeguare le tabelle millesimali con deliberazione a maggioranza ha come presupposto l’incidenza “notevole” del mutamento fattuale in relazione ai rapporti tra i valori dei singoli piani o delle porzioni di piano, onde in caso di variazione non considerabile tale – oggi, con l’opportuna specificazione del legislatore, superiore al quinto – gli obblighi dell’amministratore non possono ritenersi assolti con la mera cooperazione all’attivazione del procedimento di adeguamento delle tabelle millesimali, quantomeno nei casi in cui, non essendosi verificati i presupposti applicativi del citato art. 69, non vi sarebbe alcuna necessità di modificazione;

-non è compito dell’amministratore ricalcolare i millesimi relativi alle nuove unità immobiliari, gravando invece sui proprietari tale incombenza;

-nel contesto condominiale non opera alcun principio dell’apparenza del diritto circa la ripartizione delle spese comuni, onde la spettanza del relativo debito non può essere desunta da criteri diversi dall’effettiva titolarità.
 

Vendite di case, trend ancora in crescita (+8,8%)

Paola Dezza, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Casa24 online"

L’avvio del 2019 è dunque ancora positivo nei numeri dell’Osservatorio dell’agenzia delle Entrate, che fotografa l’andamento delle vendite ogni tre mesi in Italia. Da gennaio a marzo 2019 le compravendite residenziali sono cresciute dell’8,8%, mentre nel trimestre precedente, quello che ha chiuso il 2018, il tasso di aumento era stato pari al 9,3%. Tre mesi prima ancora, terzo quarter 2018, sono state vendute 130.609 case (+6,7% rispetto allo stesso trimestre del 2017).

Nei primi tre mesi 2019 sono passate di mano 138.525 case, contro le 127.277 unità cedute nello stesso periodo del 2018.

Il panorama generale mostra anche un allineamento tra comuni capoluogo e comuni non capoluogo, che spesso in passato hanno viaggiato a velocità differenti, con i primi nel ruolo di locomotiva.

Se si guarda alle otto maggiori città italiane le dinamiche invece sono differenziate: a Bologna e Genova gli acquisti di case sono saliti del 15,2% e del 12,9% (i tassi più elevati), a seguire i due mercati più importanti, Roma e Milano, dove le compravendite sono aumentate oltre l’11% (con rispettivamente 7.921 e 6.119 unità vendute, pari a 729.818 mq e 495.362 mq totali). Ma altre città hanno avuto anche segni negativi, come Firenze (-5,2%) e Napoli (-1,3%). Napoli peraltro è una città con una forte domanda residenziale, dove il nuovo viene assorbito dal mercato.

La crescita continua ormai dal 2014, senza boom ma in lenta e costante ripresa, in particolare nelle zone del Nord Est e del centro con tassi a doppia cifra, rispettivamente +11,8% e +10,7%.

Quasi allineato il Nord Ovest (+9,6%), dove si concentra quasi il 35% del mercato nazionale, mentre tassi assai inferiori si sono avuti nel Sud (+4,8%) e nelle Isole (+3,3%).

Regolamento condominiale, vietate le interpretazioni «estensive»

Matteo Rezzonico, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Quotidiano del Condominio"

Le attività vietate dal regolamento condominiale contrattuale devono essere specificamente e singolarmente individuate e non si può considerare vietata una determinata attività procedendo secondo interpretazioni “estensive”.

Il principio – già noto alla giurisprudenza - viene ribadito dalla sentenza numero 3462 del Tribunale di Milano, Tredicesima sezione civile, pubblicata il 4 aprile scorso che risolve un caso che vede contrapporsi al condominio, un condòmino che intende avviare un'attività di vendita al dettaglio (nella specie un piccolo supermercato, in uno stabile nel centro di Milano). Il “casus belli” è costituito da una delibera assembleare in cui si nega la facoltà di locare l'immobile all'esercizio commerciale.

In ogni caso, i Giudici per risolvere il contenzioso partono dalla pronuncia della Cassazione, 26468/2007, secondo cui i poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condòmini “soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condòmini”. Sulla scorta di questo principio la pronuncia annulla l'assemblea – che aveva negato il consenso – ritenendo che il regolamento vigente non contenga alcun divieto di aprire un esercizio commerciale.

Va da sé che deve essere rispetto l'obbligo previsto dal regolamento di “astenersi da qualsiasi godimento che possa recare danno o pericolo a cose o a persone, che sia motivo di rilievi per effetto di esalazioni o rumori o esibizioni immorali, che turbi la tranquillità dei condòmini e che comunque sia in contrasto con l'igiene e il decoro della casa, la quale si deve destinare ad uso abitazione civile ed a studi di uffici commerciali e professionali”. Si legge, al contrario, nel regolamento, “sono tassativamente escluse le destinazioni ad uso pubblico (con l'ammissione solo di quelli relativi a credito, banche e assicurazione), alberghi, trattorie, osterie, bar, pensioni, camere d'affitto, laboratori, magazzini di merce, scuole specie di canto e musica, asili, ricoveri in genere, sale da ballo e da gioco, luoghi di ritrovo, istituti per esercizi fisici, gabinetti di cura ed ambulatori per malattie contagiose ed infettive”.

Ed ancora, non sono ammesse concessioni pubblicitarie specie luminose a terzi ma “sono permesse l'installazione d'insegne anche luminose o targhe in proprio contenute in un'inquadratura decorosa o comunque armonizzante colle facciate”.
Poichè dal testo del regolamento vigente non risulta alcuna limitazione nel senso deliberato dall'assemblea, la delibera deve essere annullata, non sussistendo alcun espresso limite alla locazione degli immobili ad un soggetto che eserciti un'attività commerciale con contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori.

Sanzione per l'amministratore che non impedisce la rovina dell'edificio

Giulio Benedetti, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Quotidiano del Condominio"

L'art. 677 c.p. prevede una sanzione amministrativa nei confronti del proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina , ovvero di chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell'edificio o della costruzione e che ometta di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo. La stessa sanzione di applica a chi , avendone l'obbligo , omette di rimuovere il pericolo cagionato dall'avvenuta rovina di un edificio o di una costruzione. Tuttavia , nei confronti degli stessi soggetti che tengano tali condotte, è prevista la sanzione penale se da tali fatti deriva un pericolo per le persone.

Nel condominio il soggetto tenuto ad impedire la rovina dell'edificio è l'amministratore che, per l'art. 1130 c.c., ha un potere di signoria sulle parti comuni per renderle fruibili dai condomini e per intervenire a compiere gli atti conservativi sui relativi diritti. Il principio per cui chi esercita il potere dominicale e dispositivo sulla cosa è parimenti tenuto ad impedirne la rovina ( un grande potere implica pari responsabilità) è stabilito dalla Corte di Cassazione ( sent. n. 10549/2019) la quale dichiarato inammissibili i ricorsi di alcuni eredi avverso una sentenza che li aveva condannati per la contravvenzione dell'art. 677 c.p..

I ricorrenti erano stati condannati perchè , in qualità di proprietari, non impedivano la rovina dell'edificio ereditato ed omettevano di fare eseguire i lavori necessari alla tutela dell'incolumità pubblica. La sentenza afferma che il soggetto attivo indicato dall'art. 677 c.p. non è soltanto il proprietario dell'immobile , ma anche chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell'edifico e della costruzione. La giurisprudenza (sent .n. 46385/2015) ha sempre affermato la natura di reato proprio della predetta contravvenzione , ma ha variamente indicato la seconda ipotesi di destinatario del precetto nella persona dell'amministratore di condominio , o nel condòmino anche se la minaccia di rovina non provenga dalla sua porzione di proprietà individuale , e quindi in figure che , seppure non riconducibili ai proprietari, sono ugualmente tenute ad un obbligo di manutenzione del bene . Invero in tali ipotesi quella che prevale è la tutela dell'interesse pubblico all'incolumità delle persone nei luoghi di pubblico passaggio.

La sentenza sostiene che sotto il profilo penale dell'art. 677 c.p. sono obbligati alla conservazione dell'edificio anche i chiamati all'eredità in funzione della loro relazione con il bene pericolante , sia pure in via provvisoria e salva la diversa ripartizione degli oneri civilistici in sede civile. La sentenza n. 46385/2015 enuncia il principio per cui l'amministratore condominiale riveste la specifica posizione di garanzia , prevista dall'art. 40 capoverso c.p., che gli impone di attivarsi al fine di rimuovere la situazione di pericolo per l'incolumità dei terzi ed integrata dalla vetustà del rivestimento dell'edificio condominiale, tale da provocare la caduta di calcinacci e parti del rivestimento, fonti di pericolo per i passanti.

L'art. 1130 n. 4 c.c. è interpretato dalla Corte di Cassazione nel senso che sull'amministratore grava il dovere di attivarsi a tutela dei diritti inerenti le parti comuni dell'edifico, a prescindere dalla specifica autorizzazione dei condòmini ed a prescindere che si versi in atti cautelativi ed urgenti. Dall'art 1135, ultimo comma , c.c. si evince che l'amministratore ha la facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria , nel caso rivestano carattere di urgenza , dovendo in seguito informare l'assemblea.

Pertanto la Corte di Cassazione formula i seguenti principi:

1) L'amministratore di condominio riveste una posizione di garanzia, che discende dalla legge, per il potere attribuitogli dalle norme civilistiche di compiere atti di manutenzione e gestione delle cose comuni e di compiere atti di amministrazione straordinaria, anche in assenza di deliberazioni assembleari. Da ciò deriva la sua responsabilità per l'omessa rimozione del pericolo cui si espone la pubblica incolumità di chiunque acceda in quei luoghi e per l'eventuale danno che è derivato causalmente dalla situazione di pericolo;

2) l'amministratore di condominio, per andare esente da responsabilità penale deve intervenire sugli effetti , anziché sulla causa della rovina, vale a dire che deve prevenire la specifica situazione di pericolo prevista dalla norma incriminatrice interdicendo , ove ciò sia possibile, l'accesso o il transito nelle zone pericolanti. L'amministratore condominiale non sarà imputabile , al fine di non incorrere in una sorta di responsabilità oggettiva non ammessa dal nostro ordinamento giuridico, laddove , di fronte all'immobilismo dell'assemblea, si adoperi per impedire che la parte pericolante dell'edifico

L'art. 677 c.p. prevede una sanzione amministrativa nei confronti del proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina , ovvero di chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell'edificio o della costruzione e che ometta di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo.

Costruzioni più vicine, ora non c'è più il tabù dei 10 metri

Guglielmo Saporito, Il Sole 24 ORE – Estratto da "Norme & Tributi"

Demolizioni e ricostruzioni edilizie più agevoli con le norme del decreto sblocca cantieri, il 32/2019, convertito in legge e in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale». Le innovazioni riguardano anche le distanze da rispettare, nelle zone più edificate: tra edifici separati da strade si potranno derogare le distanze di 5-10 metri. In tempi brevi (peraltro, non definiti), Regioni e province potranno introdurre, con leggi e regolamenti, deroghe al regime delle distanze e degli standard urbanistici previsti dal Dm 1444/1968.

Nella versione originaria, quindi già in vigore da aprile, l'articolo 5 del Dl 32 innova il concetto di demolizione e ricostruzione contenuto nel testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001): oggi, la ricostruzione è «comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo».

Questa previsione del decreto-legge è stata confermata in sede di conversione, con la conseguenza che lo Stato interviene, con un principio chiaro e generale, sui vari casi di rigenerazione, razionalizzazione, riqualificazione di aree e tessuti edilizi.

Per comprendere cosa abbia modificato il legislatore, occorre partire dall'articolo 3 del Testo unico edilizia (380/2001), che identificava la ristrutturazione nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello preesistente (fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica), cioè con eguale sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali.

Nel 2001 il legislatore usava un concetto rafforzato, esigendo una ricostruzione «fedele» per realizzare un fabbricato «identico a quello preesistente».

Nel 2002 (Dpr 301) la ristrutturazione è stata resa possibile con «stessa volumetria e sagoma» dell'edificio ristrutturato, accantonando il riferimento all'area di sedime, alla caratteristiche dei materiali e alla “fedeltà” nella ricostruzione.

Nel 2013 (Dl 69, convertito nella legge 98) è venuto meno il riferimento alla sagoma, con la conseguenza che si restava nel concetto di ristrutturazione (e non di nuova costruzione) anche senza identità di sagoma, di sedime, di materiali, e senza la generica fedeltà edilizia. In questo regime si sono moltiplicate le integrali ristrutturazioni nonché le demolizioni ricostruzioni, dapprima parziali (per setti, cioè per singoli segmenti), ma spesso integrali.

Con il nuovo articolo 5, comma 1, lettera b), del Dl 32/2019 il legislatore inserisce un concetto generale, secondo il quale, indipendentemente dalla nozione di “ristrutturazione”, gli interventi di demolizione e ricostruzione“ sono «in ogni caso» e «comunque» consentiti, se rispettano le distanze legittimamente preesistenti nonché se vi sia coincidenza dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo. La collocazione della norma del 2019 ha un suo peso, perché si modifica una norma (articolo 2 bis del Dpr 380/2001) che riguarda i limiti di distanza tra fabbricati.

Quindi, il legislatore del 2019 ha innovato una normativa che risaliva al 1968 (Dm 1444) e che per cinquant'anni ha condizionato gli interventi di demolizione e ricostruzione. In particolare, il Dm del 1968 è stato ritenuto “norma inderogabile” per tutti i casi di nuova costruzione, imponendo ai nuovi edifici, ricadenti in tutte le zone diverse dai centri storici, una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.

L'obbligo di rispettare la distanza di 10 metri (o superiore, in proporzione all'altezza degli edifici) ha rappresentato un fortissimo limite alle demolizioni e ricostruzioni in aree già edificate: tutte le volte che si prevedeva la demolizione e ricostruzione di un singolo edificio, incombeva lo spettro del rispetto di una distanza di almeno 10 metri tra pareti finestrate.

Anche se il piano urbanistico locale consentiva una distanza inferiore ai 10 metri, spesso sono sorte contestazioni sulla prevalenza di 10 metri imposti dalla Dm del 1968, in contrasto con le più permissive norme urbanistiche locali. In materia di distanze, si scontravano poi concetti tecnici ed istituti giuridici: una distanza inferiore a quella prevista dalla legge (minimo 3 metri, articolo 873 del Codice civile, 10 metri nel Dm 1444), genera una servitù, cioè una situazione che dopo vent'anni comunque si consolida a vantaggio del fondo “dominante”.

Una volta consolidatasi per il decorso del ventennio, la servitù (cioè la possibilità di mantenere l'immobile a distanza inferiore a quella di legge) non viene meno qualora si demolisca il manufatto, tutte le volte che poi lo si ricostruisca alla stessa distanza. Tuttavia, la demolizione con ricostruzione ha sempre rappresentato un rischio, in quanto i tempi di esecuzione dell'intervento esigono una fase in cui l'edificio viene demolito senza immediata, istantanea integrale ricostruzione: in tale fase i dubbi dell'amministrazione comunale o l'intervento dei vicini rischia di incidere profondamente sulla costruzione, quanto meno ritardandola.

Le liti più frequenti sulla materia erano arrivate a conclusioni favorevoli agli interventi sostitutivi: da ultimo il Consiglio di Stato, con sentenza 23 aprile 2018, n. 2448, scorpora l'intervento edilizio distinguendo tra consistenza originaria del fabbricato ed intervento di ampliamento con sopraelevazione realizzato sullo stesso fabbricato. Se infatti si demolisce, ricostruendo poi con un ampliamento, occorre considerare la collocazione dell'ampliamento stesso, che non può violare le distanze; invece il volume demolito e meramente ricostruito, può restare nella stessa collocazione precedente, consolidatasi.

Tornando quindi alle innovazioni contenute nella legge del 2019, ora è sancito che si può sempre demolire e ricostruire con le stesse distanze preesistenti, se si assicura la coincidenza dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruito rispetto a quello demolito (articolo 2 bis del Dpr 380/2001, modificato dal Dl 32/2019).

Sempre in tema di distanze, la legge di conversione del decreto-legge 32/2019 prevede che i limiti di distanza tra fabbricati separati da strade pubbliche (attualmente da 5 a 10 metri) vadano rispettati solo nelle zona “C” del Dm 1444/1968, cioè nelle zone destinate a nuovi complessi insediativi o con densità superiore ad un ottavo della superficie fondiaria della zona. Finora tali distanze minime si applicavano anche nelle zone “ B “ (totalmente o parzialmente edificate). Questa modifica consente, retroattivamente (sanando anche il contenzioso), che i titoli edilizi relativi alle zone “B” (quelle più edificate) possano prevedere distanze tra fabbricati anche inferiori a quanto previsto dal Dm del 1968.

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