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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2013 alle ore 15:16.
L'ultima modifica è del 14 novembre 2013 alle ore 18:13.

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Verso la fine, il Festival Internazionale del Film di Roma sembra sparare le sue migliori cartucce. Era forse persino scontato il successo di Hunger Games, ma va detto che questo sequel (il sottotitolo, eloquente nel voler puntare tutto sulla protagonista ora anche premio Oscar, è La ragazza di fuoco) ha uno spessore e una qualità forse inaspettati per un prodotto così commerciale. Jennifer Lawrence è maturata, così come la storia che interpreta. Le parole e la profondità d'analisi del potere e dei media presenti nelle pagine della saga di Suzanne Collins, ora non vengono solo sfruttate come veicolo narrativo e ideale, ma diventano solidi binari sui quali far esplodere la rabbia sociale e di classe che nel nostro mondo è sempre più presente, sia pur repressa. La metafora tra le nostre città e i distretti del film, tra i centri del potere delle nostre multinazionali e Capitol City, è potente, immediata, così come quei giochi ferali in cui 24 concorrenti, estratti a sorte tra il popolo, devono uccidersi l'un l'altro per far godere i superstiti e far dimenticar loro le ingiustizie, permettendo ai governanti di schiacciarli meglio.

L'inizio di questo secondo capitolo ha qualcosa di inevitabilmente didascalico, serve a ricordarci che "la ragazza di fuoco" ha vinto contro il sistema, salvando un altro, gabbando le regole gladiatorie del torneo sacrificale. E per questo chi comanda la vede come un pericolo, come un virus, e i sudditi, da troppi anni vittime d'esecuzioni, miseria e violenza di stato, percepiscono in lei la speranza di una rivoluzione. Tutto troppo grande per lei, che ha fatto tutto ció solo per salvarsi la vita, come il mentore Woody Harrelson, al solito irresistibile. Siamo con lei, naturalmente: è bella, cerca il suo piccolo angolo di felicità, è buona e allo stesso tempo abbastanza egoista da essere umana. Persino Lenny Kravitz si espone per lei. Ma la recita a cui è sottoposta è troppo anche per il suo istinto di rimanere in vita, si aprono delle crepe, l'essere un simbolo del potere che odia è troppo. La sceneggiatura scorre via sempre più fluida, soprattutto dopo che Donald Sutherland, ancora più mefitico, e Philip Seymour Hoffman, primo stratega dopo la morte di Seneca Crane, ucciso per aver sottovalutato la campionessa, decidono di compiere l'ennesima ingiustizia, portare agli Hunger Games i vecchi vincitori, solo per far fuori l'icona, la giovane speranza.

Torna, quindi, l'avventura, il reality, il dolore fisico, il fantasy (in sala arriverà tutto il 27 novembre), instradato però in una visione molto più politica e spietata, figlia probabilmente anche di quel Francis Lawrence che bene aveva fatto già in Io sono leggenda. Sappiate che rimarrete col fiato sospeso: il terzo film è annunciato da un taglio netto del racconto, su uno sguardo più che esplicito.

Ottimo anche un altro film di genere, anche se di certo non è un kolossal. Parliamo di Take Five, film italianissimo in concorso, in cui Guido Lombardi fa incontrare I soliti ignoti con Le iene, in una Napoli da gangster movie che però non perde la sua ironia. Il regista conferma, dopo Là-Bas, di amare la scrittura, per immagini e non, semplice e diretta. Insieme al produttore e attore Gaetano Di Vaio – grande presenza scenica -, mette su una banda per una rapina nella città partenopea, con attori di gran talento (il Carmine Paternoster di Gomorra, il Salvatore Striano dei Taviani e di Reality, un grande Peppe Lanzetta e Salvatore Ruocco) e viene fuori un poliziottesco partenopeo che diverte, intrattiene e a volte sa stupirci. Cita Lombardi, senza remore, come nel finale da "stallo messicano", ma fa bene. Sa giocare con il cinema, con i cliché del genere, forse molla il ritmo nella parte centrale ma lo riprende in fretta. E in un momento preciso fa anche un occhiolino alla realtà – c'è da giurare che sia un'idea del grande tifoso napoletano Di Vaio -, quando al telecronista tifoso Auriemma fa fare, da una radiolina, la cronaca di un'ipotetica semifinale di Champions League, che rende credibile la scarsa attenzione delle forze dell'ordine nella loro grande notte, durante il loro grande colpo.

Sembra di essere tornati agli anni '70 con Take Five, ma allo stesso tempo questo heist movie alla napoletana mostra di aver imparato la lezione di chi ha girato questo tipo di film negli ultimi anni. Ed è una buona notizia, per entrambi i motivi.

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