Le azioni Tiscali? Valgono 1.
500 euro. Se lo ricorderanno in molti lo studio targato Abn Amro, divenuto suo malgrado il simbolo di quanto gli analisti si fossero fatti prendere la mano dalle frenesie della new economy, ma anche della difficoltà di valutare correttamente le novità che arrivano sul mercato.
Dal 2000 a oggi la situazione è sicuramente cambiata e certi eccessi non si vedono più, ma l’abitudine a considerare con un occhio di riguardo le società che si sono appena affacciate alla ribalta della Borsa sembra ancora piuttosto radicata fra gli analisti. Lo dimostra uno studio del Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna, che ha preso in esame oltre mille report con oggetto i 100 titoli che hanno esordito a Piazza Affari fra il 1999 e il giugno 2005 e che sono stati emessi entro un anno dalla data di Ipo.
Ebbene, nel 65,8% dei casi l’analisi contiene un giudizio positivo (buy, add o simili) sulla debuttante, nel 26,9% l’indicazione è neutrale hold) e soltanto nel 7,3% dei report si trova un chiaro invito a vendere (sell, reduce). Ma il dato più interessante lo si ottiene isolando gli studi effettuati da analisti appartenenti a intermediari che hanno partecipato in prima persona all’operazione di Ipo nelle diverse vesti di sponsor, global coordinator, specialist o lead underwriter, perché in questo caso il tasso di indicazioni favorevoli sale al 79,6%, mentre i sell tendono quasi per miracolo a scomparire (0,5%).
Merito di una fiducia smisurata nelle capacità della società che si è accompagnato in Borsa, o si tratta di un fenomeno diverso? «Quello che emerge dai report analizzati — spiega Enrico Maria Cervellati, docente di Finanza Aziendale presso l’Università di Bologna e curatore della ricerca insieme a Antonio Della Bina e Pierpaolo Pattitoni — è un potenziale conflitto di interessi dell’analista verso i clienti individuali o istituzionali e l’incentivo a promuovere attraverso i suoi consigli operativi i titoli sottoscritti dall’intermediario presso cui opera». La banca d’affari non indipendente è dunque maggiormente portata a dare raccomandazioni favorevoli verso chi ha accompagnato nell’iter di quotazione «e la tendenza — aggiunge Cervellati — è del tutto generalizzata, sembra si sia quasi creato uno status».
Ma i consigli dei non indipendenti, che in teoria dovrebbero godere di una superiorità informativa non indifferente, risultano almeno alla prova dei fatti più affidabili rispetto a quelli degli altri analisti? Non proprio: se un investitore avesse acquistato e tenuto in portafoglio per due anni i titoli oggetto del buy degli analisti affiliati, avrebbe registrato una performance del 37,3% inferiore rispetto a quella del resto del mercato. Seguendo invece i consigli di acquisto dei broker indipendenti, il risultato sarebbe sempre negativo, ma soltanto del 17,6 per cento: in altre parole il conflitto di interessi dell’analista finanziario costa al risparmiatore quasi venti punti percentuali.
Insomma, fidarsi è bene. Ma attenzione a chi è eccessivamente ottimista sul futuro delle nuove stelle di Piazza Affari.
maximilian.cellino@ilsole24ore.com