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Auto americana, un declino lungo 30 anni

di Andrea Malan

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L'ipotesi del fallimento di General Motors è ormai ufficialmente sul tappeto. Il consiglio di amministrazione di venerdì sera ha esaminato infatti, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal online, la possibilità di chiedere il Chapter 11 (amministrazione controllata) – un'ipotesi finora sempre smentita a cui il numero uno di Gm, Rick Wagoner, si oppone.
Resta dunque totale l'incertezza su come si chiuderà la crisi più grave dell'auto americana. Un declino che peraltro, pur essendo stato aggravato dalla crisi finanziaria e dalla recessione Usa, è tutt'altro che congiunturale (come dimostra l'articolo del «New York Times» riportato qui a fianco). A quasi trent'anni di distanza, i problemi a Detroit sono gli stessi. Proviamo a sintetizzare i più importanti: e 1) una qualità inferiore alle concorrenti, in particolare giapponesi, che ha costretto negli ultimi dieci anni le case americane a vendere il grosso dei prodotti a un prezzo più basso della concorrenza. La combinazione con altri due fattori, ovvero r una minore produttività e t un maggior costo del lavoro e una serie di oneri accessori (pensionistici e sanitari) che in Europa e in Giappone sono a carico dello Stato, ha scavato progressivamente una voragine nei bilanci. Ad essi se ne è aggiunto periodicamente un quarto, ovvero u la gamma prodotti sbilanciata verso i veicoli più pesanti, come Suv e pickup, che consumano e inquinano di più; un fattore reso critico quest'anno dall'impennata (poi rientrata) del prezzo della benzina. A completare il disastro è arrivato il crollo delle società controllate operanti nel credito al consumo (come Gmac e Ford Credit), che ha privato le case di una fetta consistente di profitti e di un'arma fondamentale per sostenere le vendite, in un mercato in cui al 90% le auto vengono acquistate a credito.
La sfida giapponese
Quando sbarcarono in America, tra la fine degli anni 50 e gli anni 60, le auto giapponesi non avevano una particolare reputazione di qualità. Già trent'anni fa, però (a quei tempi c'era ancora la quarta casa americana, la American Motors) i rapporti annuali J.D.Power mostravano un netto vantaggio per i giapponesi. Il vantaggio deriva dal sistema produttivo alla giapponese – in particolare quello della Toyota – che prevede un'attenzione ossessiva alla prevenzione dei difetti e una ricerca continua dei miglioramenti; un sistema poi imitato da tutti i concorrenti. La situazione non è cambiata quando Toyota, Honda e Nissan hanno iniziato a produrre negli Usa (una decisione presa anche per scongiurare le politiche protezionistiche invocate da Detroit): le stesse tecniche sono state esportate con successo. Quanto la qualità conti per le scelte dei consumatori Usa, lo sanno anche Fiat e Renault, costrette a loro volta a ritirarsi dal mercato.
Alla maggiore qualità nipponica si accompagnava una maggiore produttività. Lo shock per Detroit arrivò nel 1980 con il primo dei famosi «Harbour Report», che dimostrava come gli impianti giapponesi potevano assemblare una vettura di piccole dimensioni in metà tempo rispetto ai costruttori Usa e a un prezzo di 1.700 dollari inferiore.
Lentezza delle reazioni del management, conflittualità sindacale, lotte intestine (per esempio tra le varie divisioni di General Motors), incapacità di sfruttare le sinergie con le divisioni europee e dei Paesi emergenti, hanno di volta in volta reso i tentativi di recupero inutili o insufficienti, anche perché le Big Three hanno continuato a perdere quote sul mercato interno: per quanto efficiente possa essere una fabbrica, la sua produttività dipenderà anche dalla domanda per i suoi prodotti. E i tagli all'organico, che pure procedono da almeno due decenni, non hanno spostato i termini del problema.
Un certo recupero si è avuto negli ultimi anni sul piano della qualità produttiva: il rapporto J.D.Power sulla qualità iniziale delle auto per il 2008 vede per esempio Mercury (un marchio della Ford) al sesto posto davanti a Honda, e molti dei marchi di Ford e Gm ottenere punteggi sopra la media. Ma non è detto che non sia tardi.
Il costo del lavoro
I colossi americani, come la maggior parte delle grandi aziende Usa, hanno provveduto per decenni alla copertura sanitaria e pensionistica dei dipendenti – un onere che in Europa e in Giappone è a carico dello Stato. Le aziende nipponiche che sono andate a produrre negli Usa sono anch'esse sottoposte a tale vincolo, ma hanno due vantaggi. Il primo è che la forza lavoro è più giovane e praticamente non vi sono pensionati: in confronto, Gm ne ha quasi 500mila negli Usa a fronte di 140mila dipendenti (a fine 2007). Il secondo è che le loro fabbriche, per lo più nel Sud degli Stati Uniti, non sono sindacalizzate e ogni tentativo della Uaw di accedervi è finora fallito.
L'assenza della Uaw ha permesso a Toyota e soci di risparmiare numerose delle concessioni che Detroit nel tempo ha concesso in cambio della pace sindacale. Per esempio la cosiddetta jobs bank, introdotta nel 1984: un meccanismo in cui i lavoratori in esubero vengono riaddestrati a spese del l'azienda, ma che si è tradotto di fatto in una sorta di cassa integrazione che può durare anche anni. Anche in questo caso, gli ultimi anni hanno visto una decisa inversione di tendenza: l'accordo firmato un anno fa con la Uaw alleggerirà notevolmente, a partire dal 2010, gli oneri per le aziende trasferendo l'intero sistema pensionistico a un fondo esterno. Ma non è detto che Gm, Ford e Chrysler riescano ad arrivare al 2010.
  CONTINUA ...»

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