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La crescente isteria di Wall Street

di Walter Riolfi

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15 Novembre 2008
Le trimestrali dell'S&P Mib
Tutti i nodi da sciogliere al G20
I grafici di Borsa

A muovere all'insù Wall Street, nella seduta di giovedì, e a farla invece cadere, ieri, sono state notizie economiche. Bella scoperta, si dirà, tanto la cosa sembra ovvia. Mica tanto. Perché a far salire del 7% l'S&P era stata una cattiva notizia; e a farla scendere ieri è stata una presunta buona sorpresa. Bisogna premettere che da tempo Wall Street si muove indipendentemente dall'economia, considerata da tutti in continuo e forte peggioramento; e quando sale, o soprattutto scende, lo fa per qualche meccanismo legato alla crisi del credito, ai flussi internazionali dei disinvestimenti e, quindi, ai movimenti delle valute. Su questa pagina s'era (empiricamente) notato come i comportamenti in apparenza schizofrenici del future sull'S&P fossero guidati dalla nevrastenia del cambio yen/dollaro (o euro/dollaro), al punto che il grafico in continuo della Borsa ricalcava fedelmente quello delle valute. E ieri il Wall Street Journal citava uno studio di Rbc Capital Markets sulla correlazione tra 45 valute e gli indici di Borsa. Il risultato è che, tranne per il Franco svizzero, s'è assistito a una correlazione impressionante a partire da ottobre. Questo tango tra Wall Street e le valute è proseguito anche ieri, suggerendo che sono gli instabili umori dei grandi operatori che fanno trading – ossia che comperano e vendono nell'arco di pochi attimi – a guidare il mercato azionario.
Guardiamo da vicino cos'era successo giovedì. Tre ore prima della chiusura, l'S&P500, che stava perdendo il 4%, inverte rapidamente direzione e finisce per chiudere con un guadagno del 6,9%: 11 punti percentuali in sole tre ore. Tutti i movimenti della Borsa americana erano stati anticipati (di qualche secondo) dall'apprezzamento dello yen sul dollaro. Ma a determinare quella strana danza era stata una cattiva notizia: sussidi settimanali di disoccupazione volati a 516mila, segno inequivocabile di una profonda recessione. E ieri una Borsa isterica, che fino alle 15.57 si vedeva limare lo 0,7%, è precipitata a una perdita massima del 4,5%. Cos'era successo alle 15.58? L'indice sulla fiducia delle famiglie Usa (quello del Michigan) salito inaspettatamente a 61,4 dal 58,4 di ottobre.
A ben vedere in questa contraddizione c'è una logica, per quanto un po' perversa. Perché, data per scontata la recessione, l'intensificarsi di cattive notizie può significare che l'economia sta rapidamente peggiorando ed è prossima a toccare il fondo. Ma un misto di cattive e buone notizie può voler dire che il processo è più lento: e di conseguenza sarebbe procrastinato il rialzo delle Borse, visto che queste scontano con circa 9 mesi d'anticipo i cicli economici. Si potrebbe obiettare che quella del Michigan è una notizia poco attendibile. Fa il paio con il balzo di un altro indice di fiducia dei consumatori, quello di Ibd salito così tanto in un mese come mai era avvenuto negli 8 anni di storia di questo indicatore. Più che una maggiore propensione ai consumi (calati del 2,8% in ottobre, seppure in gran parte a causa dei prezzi calanti della benzina), questi indici sul sentiment suggeriscono un cambiamento d'umore legato a qualche fenomeno: nella fattispecie, le speranze riposte nell'elezione di Barack Obama.
Nonostante l'ondivaga fiducia, l'economia va peggiorando sensibilmente e la recessione è pressoché ufficiale in America, come in Europa. L'unico dubbio riguarda quanto profonda sarà e quanto a lungo potrebbe durare. I mercati immaginano che il peggio arriverà all'inizio del nuovo anno. Se così fosse, le Borse, avendo perso circa il 50% dai massimi del 2007, potrebbero avere sostanzialmente scontato la crisi. Ma per i prossimi due-tre mesi l'atteggiamento dei mercati sarà quello di aspettare e osservare.
In settimana l'S&P ha perso il 4,36%, il Nasdaq il 5,96% e lo Stoxx il 5,9% (-5,1% Parigi, -4,9% Milano, -4,6% Francoforte, -3% Londra).

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