Sale la tensione tra Stati Uniti e Cina, potenze del Pacifico che si affrontano con le armi dell'economia e della finanza, attualmente impegnate in un braccio di ferro polemico sul tasso di cambio della valuta cinese, lo yuan, che secondo Washington è tenuto artificialmente basso per favorire le esportazioni.
Ieri, 130 deputati al Congresso degli Usa hanno chiesto al presidente Barack Obama di prendere misure «severe» contro le «scorrette pratiche valutarie» della Cina, mentre domenica era stato il premier cinese Wen Jiabao ad affermare invece che la divisa cinese non è sottovalutata e che il paese del Dragone manterrà il suo valore «stabile» per il prossimo futuro.
Le parole del premier cinese non hanno certo rassicurato i deputati americani, che hanno così inoltrato la lettera all'amministrazione Obama chiedendo l'introduzione di dazi sulle importazioni di merci dalla Cina. La misura è condivisa tra l'altro dal premio Nobel per l'economia Paul Krugman, secondo il quale «il fatto che la Cina tenga lo juan sottovalutato sta appesantendo l'economia mondiale in una fase di problemi già gravi». Krugman mostra di condividere appieno la lettera dei membri del Congresso e invita il Tesoro Usa a dichiarare la Cina un paese «manipolatore di valute». Completamente diversa, ovviamente, l'analisi di parte cinese, secondo la quale - afferma il portavoce del ministero del commercio cinese Yan Jian - l'avanzo della bilancia commerciale della Cina «non è causato dal tasso di cambio dello yuan», bensì «è il risultato del processo di globalizzazione» e che «esisterà ancora per qualche tempo». Da registrare che l'ultimo numero dell'Economist in edicola predica invece prudenza nei confronti della Cina, evitando di gettare benzina sul fuoco di un confronto economico-finanziario (e quindi anche politico) già aspro e serrato.
Piccole tigri grandi consumi