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Pompei, le rovine da salvare

di Mariano Maugeri

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18 Luglio 2008

«Ecco il Vesuvio, che ieri era verde delle ombre dei pampini, qui celebre uva spremuta dal torchio aveva colmato i tini, qui c'era la città di Venere, a lei più gradita di Sparta, qui c'era la città che ripeteva nel nome la gloria di Ercole. Tutto giace sommerso dalle fiamme dell'oscura cenere: gli dei avrebbero voluto che un tale scempio non fosse stato loro permesso».

Gli epigrammi di Marziale accompagnano il visitatore che dalla stazione Garibaldi di Napoli si avventuri lungo le carrozze ondeggianti della Circumvesuviana. Il profilo del Vesuvio incombente, una gettata informe di cemento dal quale sbocciano vaporosi e ostinati i pini marittimi, poi il mare violaceo amato dai greci, l'isola di Capri distesa come un cetaceo in viaggio eterno verso punta Campanella, finis terrae surrentinae. La brusca frenata del trenino annuncia gli scavi di Pompei, ruins in inglese. A frotte decine di viaggiatori coreani, danesi, australiani, spagnoli e di chissà quale altra parte del mondo varcano un confine invisibile che li separa dal più grande parco archeologico a tema che mente umana abbia concepito.

Poche centinaia di metri senza marciapiedi, un budello in carreggiata doppia con ai lati un'altra gettata di bancarelle di "premute", sandwich e orrenda chincaglieria simil pompeiana. Chi non vuole esser stritolato dalle automobili strombazzanti è costretto a gettarsi tra le braccia dei venditori che agitano americanissimi cappelli di paglia. All'ingresso delle ruins, mentre il sole implacabile cuoce, una massa enorme di visitatori, un gruppetto di uomini dall'età indefinibile ripete come un disco rotto: «Any guide, any guide?».

I cartelli con le indicazioni non sono mai esistiti, a Pompei. Gli anglosassoni chiedono a chiunque incrocino: «Toilette, please»? Un signore inglese sulla sessantina con un elegante cappello bianco e braghette color cachi si rivolge al cronista per saper se all'interno degli scavi esista un coffee shop. Le guide lottano tra loro per intercettarne qualcuno e avviare la contrattazione: 95 euro per un giro di due ore, «ma per lei 85 vanno bene», ovviamente in nero. È come tentare di pescare un branco di grossi pesci con il retino: per uno al quale riescono a rivolgere una domanda, altri venti corrono verso il chiosco per impossessarsi di un'autoguida. Più in basso, a piazza Esedra (o piazza Marina) si incrociano due popoli e due epoche: la plebe campana con i wasp anglosassoni e i loro omologhi asiatici. Più che un suk, Pompei è un ring dove si fronteggiano la refrattarietà lapidea dell'homo vesuvianus e il desiderio di conoscenza di migliaia di stranieri che per abbigliamento, età, modi e reddito rappresentano la categoria dei viaggiatori più corteggiata al mondo.

Due milioni e mezzo di visitatori all'anno, dicono le statistiche, contro 150 custodi degli scavi con quinta elementare e terza media assunti con una firma apposta in calce a un decreto in uno degli innumerevoli smottamenti pentapartitici che seguirono il sisma del 1980. Centocinquanta custodi più un centinaio di amministrativi, tutti dipendenti del ministero dei Beni culturali, difesi da sette sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Intesa, Unsa, Intesa) che a loro volta vantano tre rappresentanti sindacali per sigla più tredici componenti della Rsu. Ogni volta che il più che longevo soprintendente agli scavi, l'archeologo di chiara fama Pier Giovanni Guzzo, è sfiorato dall'idea di muovere un dipendente è obbligato a convocare 34 sindacalisti.

Da un quarto di secolo il loro leader indiscusso è Antonio Pepe, che mi accoglie con la camicia sbottonata fino allo sterno e una sigaretta che fuma sotto un cartello che recita «vietato fumare» e affida il rispetto della legge nientemeno che a un funzionario della prefettura di Napoli. I mozziconi volano con rara precisione, infilando una fessura della porta-finestra che introduce all'ufficio. Con la stessa disinvoltura del lanciatore di mozziconi Pepe ha cambiato sindacato. Prima Cisl, poi Uil, infine di nuovo Cisl. Lui, craxiano integrale e due occhi dove si mescolano in parti uguali intelligenza e furbizia, avverte sornione: «Aggià cagnato 'o sindacato, è 'o vero, mai le mie idee».

Ci sono idee e idee. E non sempre quelle buone sono state esiliate da Pompei. Nel '97 l'allora ministro dei Beni culturali, Walter Veltroni, attribuisce l'autonomia finanziaria alla Soprintendenza di Pompei e introduce la chiamata diretta del city manager. Quel posto viene occupato da Giuseppe Gherpelli, ex assessore alla Cultura del Comune di Reggio Emilia. In dodici mesi il nuovo manager bandisce undici gare europee, spazzando in un colpo solo decine di cottimi fiduciari e grumi d'interessi inconfessabili. Assegna l'appalto della biglietteria a una società privata che assume 40 persone e quintuplica gli incassi. Nasce il bookshop, la caffetteria interna, il servizio di audioguide, quello degli addetti alla pulizia e la cura del verde. Il city manager riesce a mettere d'accordo l'arcipelago delle sigle sindacali e istituisce premi in denaro legati all'incremento degli incassi. Compra i pc e mette al lavoro pure 44 dattilografi fino ad allora senza una sola macchine per scrivere.

  CONTINUA ...»

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