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I segreti del superperito hi-tech

di Lionello Mancini

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28 Ottobre 2007
Gioacchino Genchi nel suo ufficio di Palermo

«Io il burattinaio di Why not? Il manipolatore di dati? L'anima nera di De Magistris? Ma via... Sono solo un modesto consulente tecnico» così sembra schermirsi Gioacchino Genchi, 47 anni, da Castelbuono (Pa), poliziotto in aspettativa non retribuita da anni, due matrimoni, tre figli, una mente veloce «al servizio esclusivo della Giustizia»; un Crociato restio a ogni mediazione, folgorato dalla Verità processuale dei tabulati telefonici e di ogni altra traccia digitale. «Mi attribuiscono grandi poteri – prosegue – e invece mi considero solo la somma di tre mediocrità: sono un mediocre avvocato, un mediocre poliziotto, un mediocre informatico. Se il voto massimo è 10, mi dò 5 in tutti questi campi. Ma – conclude sornione – la somma dà 15, che è molto più di 10...».

Non alto, rotondetto, i pochi capelli castano chiari arruffati, informale nell'abbigliamento, gli occhi chiari mobili e attenti, parlantina fluviale: eccolo l'uomo che Clemente Mastella definisce «mascalzone», additandolo come artefice, raccoglitore indefesso e propalatore di notizie false o di mezze verità mirate; il consulente informatico che l'ex Procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi (già capo di Luigi De Magistris), ha pluriquerelato per calunnia; il poliziotto temuto da molti, amato da qualcuno, ma che nessuno sottovaluta.

Parlare con lui è difficile, ma parlare di lui lo è ancora di più: i magistrati, poliziotti, carabinieri interpellati dal Sole-24 Ore hanno tutti chiesto di non essere citati, non vogliono rogne con l'uomo dei computer.

Genchi è da quasi 20 anni il consulente informatico-telefonico più gettonato dalle Procure d'Italia. «Perché è il migliore, il più attrezzato, ha in testa un archivio e le sue elaborazioni non le fa nessun altro» dicono i suoi sostenitori, tra cui diversi Pubblici ministeri attivi al Sud. Ed è vero, i risultati si sono visti, portano il nome di catture importanti come quelle del pentito Totuccio Contorno o del boss Pietro Vernengo.

Precisione maniacale, grande capacità di lavoro, aggiornamento costante sono le altre caratteristiche che hanno convinto decine di magistrati ad avvalersi di lui, già quando era ancora operativo come poliziotto. Dai vari uffici giudiziari di Sicilia e Calabria, dalla Campania a Roma, da Firenze a Milano, Genchi è stato consulente in processi di mafia, rapine, omicidi, sequestri, casi clamorosi come quella della piccola Denise Pipitone scomparsa a Mazara del Vallo o il suicidio del magistrato Luigi Lombardini a Cagliari (Genchi era lì come consulente di Giancarlo Caselli), per finire con la strage di Via D'amelio e il processo al Governatore Salvatore Cuffaro.

Una singolare e ormai abnorme (questo unisce estimatori e critici) raccolta di dati sensibili fornitigli dall'Autorità giudiziaria, che ha accresciuto il valore del suo potenziale di elaborazione e i rischi connessi alla stessa accumulazione. Nella filosofia del poliziotto in aspettativa sindacale dal 2000, c'è la scomposizione di un fatto in tanti minuscoli frammenti – intercettazioni, tabulati di traffico telefonico, scie di telepass, carte di credito, bancomat, centraline elettroniche di auto, incrociabili con immagini, mappe interattive, storie sanitarie, tracce biologiche ecc. – frammenti poi ricomposti in perizie anche di 600 pagine, comunque sempre corpose, illustrative del punto di vista del consulente e dense di suoi commenti. Una fotografia di verità secondo lui incontestabile; elucubrazioni di un megalomane per i suoi detrattori. «Di certo un peferzionista – dice un Pm palermitano estimatore e amico di Genchi – che però fatica a stringere sulle risposte. Infatti la nostra Procura ormai ha diradato le sue richieste perché le conclusioni tardano troppo. Anche se lui dice che la colpa è dei gestori, lenti nel passargli i dati richiesti».

Ciò che più allarma gli osservatori, resta la mole di dati immagazzinata in un ventennio di superconsulenze. Una quantità e una qualità tali che nessun altro soggetto – gestori telefonici, uffici giudiziari, avvocati, nemmeno la Pg – possiede. «Ma cosa se ne fa? – si chiedono un po' tutti – e cosa potrebbe farne?». Genchi non nega affatto di aver trattato milioni di dati, come è previsto dalla legge che possa conservare copia delle relazioni scritte, ma ribadisce e dimostra la tracciabilità di ogni suo intervento in rete, nega che tutti questi dati siano incrociabili, nega che esista la possibilità stivare tutta questa massa di bit, nega di aver alcun interesse a piegare la realtà alle sue teorie: «Quello che io dimostro può servire all'accusa come alla difesa – ripete salomonico –. Però gli attacchi di questi giorni dispiacciono a un uomo delle istituzioni come me. Il signor ministro Mastella, di cui ho grande rispetto, farebbe bene a calmarsi, se non vuol rischiare di farsi male». Ecco, Genchi è così: sicilianamente allude, s'inchina e poi parte la stoccata». Più o meno scherzosa.

Nel suo ufficio bunker di Piazza Principe di Camporeale (500 metri quadrati, più abitazione all'attico, nel palazzo in vetrocemento confiscato alla famiglia mafiosa dei Ganci) si entra solo se si conosce la combinazione della serratura e se quella conosce la tua impronta digitale. Lo stesso vale per accedere ai dati stivati in server dai nomi di politici (Fassino, Ciampi, ovviamente Mastella): password, chiavetta, impronta. Tutto quanto non è digitale è accatastato in una confusione comprensibile solo da chi ci lavora: server, schermi, tabulati, i cellulari degli assassini di Capaci, il Toshiba portatile di Giovanni Falcone, aperto e analizzato da Genchi dopo la morte, come la sua agenda elettronica.

  CONTINUA ...»

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