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L'intervento di Fini all'incontro organizzato a Madrid da "Nueva Economia Forum"

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29 giugno 2009

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Le degenerazioni causate da tale squilibrio non possono dunque essere imputate al mercato e alla concorrenza, ma a quell'insieme di fattori distorsivi che hanno seriamente alterato quelle condizioni essenziali ai fini del loro corretto funzionamento. Diversamente, finiremmo per confondere cause e sintomi, rischiando di aggravare ulteriormente una situazione già difficile e densa di incognite. Avere ben chiaro come stanno le cose appare oggi tanto più rilevante alla luce dei cambiamenti che la crisi stessa ha determinato, in termini di assetto e prospettive, nel sistema di rapporti tra Stato e mercato. Le necessità dettate dalla fase emergenziale hanno prodotto, infatti, una significativa inversione di tendenza, dilatando ovunque, e in modo assai significativo, la presenza pubblica nell'economia come risposta immediata, e senza alternative, alle esigenze di stabilità dei sistemi bancari, di tutela del risparmio, di protezione sociale e di sostegno alle famiglie e alle imprese.

Non si deve, tuttavia, cadere nell'errore di trarre la conclusione per cui la dilatazione della spesa pubblica costituirebbe un rimedio, se non l'unico, valido in tutte le fasi congiunturali, per assicurare, allo stesso tempo, stabilità e crescita sul piano macroeconomico. Occorre assolutamente impedire la rinuncia alla politica di risanamento finanziario; l'eccesso di indebitamento pubblico, piuttosto che compensare le carenze del settore privato, di cui la vicenda "sub-prime" costituisce l'esempio più eclatante, ne accentuerebbe gli effetti distorsivi. In sostanza, le responsabilità della crisi non possono essere attribuite interamente alle dinamiche del mercato; è la politica, infatti, che ha consapevolmente rinunciato a svolgere quel ruolo di contemperamento degli interessi e di ricerca di soluzioni eque e finanziariamente sostenibili che le spettano e che non possono essere demandate all'autoregolamentazione.

L'economia di mercato continua a manifestare la sua capacità, come ci ha insegnato il grande economista austriaco Joseph Schumpeter, di costruire il nuovo e di creare le condizioni per un vero progresso civile ed economico. Questa forza creatrice non si è persa e non verrà meno neanche con la crisi in corso. Il problema è piuttosto di definire un quadro di regole effettivamente applicabili volte ad evitare che soltanto alcuni approfittino dei benefici derivanti da un sistema di libero mercato e che gli abusi di pochi si traducano in un danno per molti. In questa prospettiva, si deve inquadrare il rapporto tra Stato ed economia privata e, più in generale, tra sfera pubblica e mercato. Affinché le regole funzionino davvero è indispensabile che si applichino senza eccezioni e che abbiano una valenza generale. Tra le regole, carattere prioritario deve essere attribuito alla composizione dei diversi interessi e alla tutela dei più deboli. Sotto questo profilo, ci assiste proprio quel modello di economia sociale di mercato che rappresenta l'architrave portante dell'evoluzione dei sistemi democratici a fondamento dei quali risiede la stessa concezione di sviluppo economico.

Qui non si tratta di scegliere tra individualismo di matrice utilitarista e una prospettiva di stampo funzionalista. Piuttosto, si tratta di affermare che la dimensione pubblica, in primo luogo attraverso un sistema di regole efficaci, non può fare a meno di prevenire o, comunque, di offrire gli strumenti per regolare in termini equi i potenziali conflitti di interesse e sociali che l'esercizio dell'attività economica può ingenerare. L'economia sociale di mercato rappresenta anche una delle forme più concrete e, al contempo, più complesse di traduzione del principio di sussidiarietà che altro non è che la ricerca di un maggiore equilibrio tra ruolo che sono chiamati a svolgere, rispettivamente, la sfera pubblica, il mercato e il cosiddetto "terzo settore". Il secondo requisito di un sistema efficace è che, quando si tratti di fenomeni che eccedono i confini delle singole entità nazionali, esso sia il più possibile condiviso a livello internazionale.

Troppo spesso i movimenti di capitale a livello internazionale prescindono dalla valutazione delle prospettive di redditività nell'investimento produttivo per essere interamente dettati dalla comparazione dei possibili vantaggi assicurati da tassazioni più favorevoli o da più blandi sistemi di controllo. Dobbiamo sempre ricordare che nessuno Stato oggi è in grado di fronteggiare da solo fenomeni di portata globale come i flussi dell'economia finanziaria. La tentazione di fare da sé è, in realtà, molto forte. La più evidente dimostrazione è la tendenza di alcuni paesi di ricorrere massicciamente agli aiuti di Stato, al di fuori del rispetto delle regole comuni definite a livello europeo, per sostenere specifici comparti produttivi o direttamente singole imprese nazionali. In questo modo, tuttavia, si finisce per alimentare una concorrenza sleale che non arreca alcun contributo duraturo alla solidità e alla competitività dei sistemi produttivi.

  CONTINUA ...»

29 giugno 2009
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