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Addio a Solzhenitsyn, denunciò
al mondo l' «Arcipelago Gulag»

di Piero Sinatti

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4 agosto 2008
Alexander Solzhenitsyn (Infophoto)

«Alla fine della mia vita posso sperare che il materiale storico i temi storici, i quadri di vita e i personaggi da me raccolti e presentati, riguardanti gli anni durissimi e torbidi vissuti dal nostro Paese, entreranno nella coscienza e nella memoria dei miei connazionali (…). La nostra amara esperienza nazionale ci aiuterà nella possibile nuova ripresa delle nostre mutevoli fortune, ci metterà in guardia e ci terrà lontani da rovinose rotture».
Parole simili a un congedo e a un testamento spirituale, pronunciate dal grande scrittore russo Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn nel giugno 2007, quando gli fu conferito il massimo premio di Stato per "i grandi risultati raggiunti in letteratura": poco più di tredici mesi prima della morte che lo ha sorpreso, la notte di domenica 3 agosto a oltre 89 anni. Era da tempo gravemente ammalato e costretto a muoversi in una sedia a rotelle, nella sua appartata e boschiva residenza di Troitse-Lykovo, presso Mosca. Residenza in cui, in quella importante occasione, accettò e ricevette la deferente visita di Vladimir Putin. Privilegio che non ebbe Boris Eltsin, di cui lo scrittore respinse la concessione di quella stessa onorificenza.

Un grande testimone del tempo
Con Solzhenitsyn scompare uno dei più grandi testimoni del XX secolo. Una vita intera segnata da un indomabile coraggio e un'alta moralità, civile e religiosa, da una profonda coerenza tra vita e opera intellettuale e letteraria, secondo la sua principale professione di fede: "Non vivere secondo menzogna". Premio Nobel per la letteratura nel 1970, Solzhenitsyn, (nato a Kislovodsk, sud-est russo, l'11 dicembre 1918, da una famiglia di agiati agricoltori, fisico e matematico per formazione) è stato il primo scrittore a vedere pubblicata in Urss (novembre 1962) un'opera incentrata su un tema fino ad allora tabù: la vita di un campo di prigionia dell'epoca staliniana. Si tratta del romanzo breve «Una giornata di Ivan Denisovich», apparso con grande clamore e con un lungo e fitto seguito di polemiche, nella rivista letteraria «Novyj Mir», grazie al parere favorevole del suo direttore il famoso poeta Aleksandr Tvardovskij e dell'allora leader «<destalinizzatore»del Pcus Nikita Khrusciov.

Con realismo degno della migliore narrativa russa (tra Tolstoj e Cekhov) Solzhenitsyn vi rappresentò un giorno trascorso in un lager da un semplice contadino ed ex-soldato, Ivan Denisovich Shukov, che è riuscito ancora una volta a sopravvivere alle fatiche e agli stenti del lavoro forzato, mantenendo intatta la propria coscienza in un mondo di gerarchie crudeli e imposizioni volente.

L'Arcipelago Gulag
E' al tema concentrazionario che restano indissolubilmente legati il nome e il destino di Solzhenitsyn, che alla metà degli anni Settanta, subito dopo la sua espulsione dall'Urss, pubblicò all'estero (presso l'editrice parigina in lingua russa Ymca Press) i sette libri in tre volumi del monumentale «Arcipelago Gulag», la più grande e originale ricerca documentario-letteraria costruita attraverso le testimonianze da lui raccolte in gran segreto tra oltre duecento persone che avevano vissuto l'esperienza del lager, al pari e più dello stesso scrittore. Lo stesso Solzhenitsyn aveva scontato una condanna a otto anni di lager tra il 1945 e il 1953, reo di aver criticato in una lettera scritta al fronte la condotta di guerra di Stalin. Grazie a quest'opera, cui lo scrittore aveva lavorato con tenacia e intransigenza, per più di un decennio, l'acronimo Gulag (Direzione centrale dei lager) è diventato il simbolo più conosciuto e onnicomprensivo dell'intero sistema sovietico negli anni di Stalin.

Nell' «Arcipelago», Solzhenitsyn rappresenta tutti i cerchi dell'inferno concentrazionario, compresi quegli estremi della Kolyma, ovvero "il crematorio bianco" dell'Estremo Nord Est sovietico (raccontato con impareggiabile efficacia artistica da un altro superstite del Gulag, Varlam Shalamov, che con Solzhenitsyn ebbe rapporti difficili). L'«Arcipelago» è una vera e propria requisitoria contro il sistema concentrazionario, segnata da un'efficacissima diversità di registri linguistici e letterari. Possiamo parlare di altissima oratoria storico-artistica, che inchioda per sempre alle sue immani responsabilità il sistema totalitario-inquisitorio creato da Lenin e da Stalin. Un'opera gigantesca, mai apparsa fino ad allora.

Oltre a queste due opere, Solzhenitsyn dedica alla tematica del lager altri due grandi libri, scritti negli anni Sessanta, prima del suo forzato esilio che inizia nel 1974 e si protrae per un ventennio, prima in Svizzera, poi negli Strati Uniti. Sono «Il Primo cerchio» e «Padiglione cancro». In quest'ultimo l'autore parla della sua miracolosa guarigione dal cancro, avvenuta in un ospedale dell'Asia centrale. Non ne viene autorizzata la pubblicazione: si afferma il "rigelo" di Leonid Brezhnev e si chiudono gli spazi, pur angusti, prima concessi da Khrusciov alla critica dello stalinismo. Lo scrittore si trasforma, in quegli anni, in un nemico da mettere a tacere con tutti i mezzi (persino l'avvelenamento).

  CONTINUA ...»

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