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Lo sbaglio di Saakashvili

di Piero Sinatti

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9 agosto 2008
ANALISI
Usa e Ue: «Fermate la guerra!»
di Piero Sinatti

Il vice capo di Stato Maggiore delle Forze Armate russe Nagovistyn ha assicurato nella prima mattinata di sabato che «la Russia non è in stato di guerra». Quasi contemporaneamente il presidente Medvedev, affermava che le operazioni militari russe in corso hanno lo scopo di «aiutare i nostri peace keepers in Sud Ossetia e la popolazione civile ossetina e costringere alla pace la Georgia». E per ora le relazioni diplomatiche non sono state rotte. Non siamo alla guerra dichiarata, ma nel pericoloso stato che la precede.
Tuttavia, la Russia non si è limitata a intervenire in Sud Ossetia per ripristinarvi lo statu quo, grazie all'invio di reparti corazzati della 58a armata, mentre è preannunciato l'arrivo di truppe d'assalto. Nella mattinata del 9 agosto Tskhinvali risulta sotto il controllo delle "forze di pace" russe. Ma caccia-bombardieri di Mosca avrebbero colpito importanti basi militari in territorio georgiano (Vaziani, Marneuli, Gori), e addirittura il porto di Poti sul Mar Nero, sede del principale terminale petrolifero georgiano sul Mar Nero.
La Georgia è un paese chiave per i flussi di greggio dell'area caucasico-caspica e centro-asiatica diretti in Occidente. Anche per questo Washington ne patrocina l'entrata nella Nato.

La reazione russa
La ricostruzione dei fatti dell'8 agosto, seguiti all'attacco notturno georgiano a Tskhinvali, ci suggerisce che Mosca ha cambiato strategia nel corso di quella giornata.
Infatti, nella notte dell'8 agosto, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu il rappresentante russo Churkin chiedeva che si aprisse la discussione su un suo documento in tre punti: cessazione dei combattimenti, apertura immediata di negoziati, impegno di tutte le parti in conflitto a rinunciare all'uso della forza. Usa, Francia e Gran Bretagna lo respingevano, ritenendo che il terzo punto, se accettato, avrebbe indebolito la posizione di Tbilisi. Il CdS delle Nazioni unite registrava, ancora una volta, la propria incapacità di fermare un conflitto. Nella mattina dello stesso giorno, l'8 agosto, il Ministero degli esteri russo sottolineava la necessità di proseguire il processo negoziale per la pacifica regolamentazione del conflitto ossetino-georgiano.

Mutano le prospettive
Nel pomeriggio, invece, le prospettive cambiavano, radicalmente. Il presidente Medvedev rientrato precipitosamente a Mosca da un luogo di riposo (il che suggerisce quanto inattesa fosse la svolta degli eventi), riuniva il Consiglio di sicurezza, condannava duramente l'attacco georgiano all'Ossetia del sud e affermava testualmente che «il presidente è obbligato a difendere la vita e la dignità dei cittadini della Russia dovunque si trovino» e che «i colpevoli verranno puniti».
Nello stesso tempo, veniva annunciato dal ministero della difesa che verso Tskhinvali marciavano i reparti corazzati della 58a armata. Tbilisi denunciava, tra conferme e smentite, le incursioni aeree russe sul territorio georgiano.
Mosca, dunque, era ricorsa alla risposta militare, dopo che sembrava (e si auspicava) che si limitasse a quella politico-diplomatica, per evitare l'allargamento del conflitto e le sue imprevedibili conseguenze.

I peace keepers russi
La svolta si spiega con circostanze, apparse assai chiare nel corso della fatale giornata: le truppe georgiane avevano attaccato diverse postazioni dei peace-keepers russi, un contingente di 500 uomini che, affiancato a militari georgiani e sud-ossetini, ha il compito di mantenere la pace nei luoghi del conflitto fino ad allora "congelato". I morti erano 12 (saliti successivamente a 15) e alcune decine i feriti.
La Russia era stata attaccata con i suoi peacekeepers: in brutale violazione degli accordi internazionali che circa 15 anni hanno affidato a Forze miste formate dalle tre parti (Georgia, Ossetia del sud e Russia) il compito di preservare la pace nei luoghi del conflitto armato tra Georgiani e sud ossetini del 1992, che provocò oltre 1000 morti e la fine della sovranità georgiana su quella regione.
Da tempo i georgiani aveva pianificato l'attacco, addensando ai confini di quella montuosa e povera repubblica oltre 3 mila uomini e un imponente panoplia di carri armati, blindati, artiglieria pesante e, nella vicina base di Gori, anche aerei da combattimento.
La Russia, inoltre, doveva difendere la popolazione civile, principale vittima dell'attacco dell'8 maggio, se sono vere le stime del presidente ossetino Kokojty e del ministero degli esteri russo che denunciato la morte di 1400 persone (molte delle quali, presumibilmente, con passaporti russi).
Il ricorso alla forza da parte di Mosca era invitabile: per onorare un impegno e per l'impossibilità di ottenere un risultato immediato – il ritiro dei georgiani - con la sola pressione politico-diplomatica (inefficace alle Nazioni Unite). Mosca, tuttavia, aveva lavorato e sta ancora lavorando in questa direzione, appellandosi a Onu, Osce, Unione europea, Nato, Consiglio d'Europa e Usa, paesi della Csi.

  CONTINUA ...»

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