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Nato, 60 anni. Solo in parte ben portati

di Paolo Migliavacca

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3 aprile 2009

Il vertice per i 60 anni della Nato - giovedì 3 e venerdì 4 aprile a Strasburgo e a Kehl - si svolge non per caso a cavallo della vecchia frontiera franco-tedesca, oggi abbattuta, su cui varie generazioni di europei si sono immolate in guerre tanto insensate quanto sanguinose. Il simbolismo ricercato vuole testimoniare come l'Alleanza abbia contribuito a cementare un nuovo rapporto nell'Europa post-bellica che la costruzione della Comunità economica prima e dell'Unione poi ha cementato, si spera in forma indistruttibile, in un edificio che tuttavia ha minacciato varie volte di crollare.

La presenza di un'ingombrante alleanza rivale - il Patto di Varsavia – espressione di una visione del mondo e di valori antitetici la cui realizzazione implicava la dissoluzione dell'Occidente, è stata infatti neutralizzata con la messa a punto di una poderosa macchina militare, che per fortuna non ha dovuto essere collaudata sul campo, ma senza la quale l'insieme di «democrazie liberali e dei loro valori fondamentali», come le definisce l'ammiraglio Di Paola nell'intervista non avrebbe probabilmente resistito alle numerose prove cui è stata sottoposta. Il blocco di Berlino (anche se formalmente l'Alleanza si costituì solo poche settimane prima della sua fine) e poi il Muro edificato nel 1961, la controversa installazione degli euromissili nel 1979 e la gestione delle crisi balcaniche seguite alla dissoluzione della Jugoslavia, sono state altrettante verifiche cruciali di una compattezza che per 40 anni ha sfidato quotidianamente le ragioni dello "stare insieme". Perché questa compattezza non ha mai significato mancanza di divergenze tra le due sponde dell'Atlantico, come del resto dev'essere in un'Alleanza di membri di pari rispettabilità (se non di eguale peso).

«Burden sharing», chi paga il conto?
Un esempio, su tutti, la querelle mai sopita sul cosiddetto «burden sharing» (la ripartizione degli oneri della difesa collettiva, in gran parte assicurata dal Pentagono), con gli Usa a sollecitare l'Europa a far la sua parte con i bilanci militari e il Vecchio Continente a fare spesso e volentieri "orecchie da mercante". Non è infatti un caso che, su una spesa totale per la difesa dell'Alleanza di 15.415 miliardi di dollari in questi 60 anni, due terzi siano stati erogati da Washington.

Mentre a Strasburgo si fa festa rimane però irrisolto il problema del futuro dell'Alleanza: che compiti dovrà cioè darsi negli anni a venire. Per molti analisti, infatti la Nato si trascina da vent'anni nel dubbio su ciò che sia, dopo il crollo del nemico storico, e soprattutto su ciò che dovrà essere e fare. È innegabile che l'allargamento della sfera di competenza (dal Tropico del Cancro a Sud e l'Europa centro-orientale a Est fino, di fatto, a tutto il globo terracqueo), le varie «mission» ipotizzate (lotta al narcotraffico, alla pirateria navale, al terrorismo internazionale, ma anche forza d'interposizione oggi nei Balcani e longa manus militare dell'Onu in Afghanistan, il lavoro in prospettiva più rischioso) tradiscano un'incertezza di fondo. E non pochi ritengono che questa incertezza possa preludere a un più o meno lento e glorioso "canto del cigno", che si chiuderà con la scritta «mission accomplished» impressa sulla ragione sociale. Questa sì davvero ultimata, diversamente da quanto annunciò da Bush sull'Irak – e con piena soddisfazione di tutti i membri. Ma si tratterebbe pur sempre di un capolinea.

Il «ritorno» della Francia
Non meno argomenti (e assai solidi) vanta però la tesi opposta. Quella secondo cui la Nato si starebbe avviando a una seconda giovinezza, testimoniata proprio dalla flessibilità con cui sa darsi nuovi compiti e, particolare non di poco conto, dall'elevato numero di pretendenti (12) ammessi negli ultimi dieci anni e dagli altri (almeno un'altra mezza dozzina) che continuano a bussare alla sua porta. Senza dimenticare, vero fiore all'occhiello, il ritorno a pieno titolo, alcune settimane fa, della Francia nel comando militare integrato dopo 45 anni di "sedia vuota" voluta nel 1966 dal generale De Gaulle.

Proprio l'allargamento a Est ha però innescato la più grave crisi degli ultimi anni. L'estate scorsa la Russia, che rifiuta tale processo e chiede a gran voce che Ucraina e Georgia non ottengano il placet all'ingresso, ha approfittato di uno sconsiderato tentativo georgiano di riconquistare con le armi l'Ossezia del Sud (regione da tempo secessionista con l'aiuto di Mosca) per scatenare un attacco militare pesantissimo dell'Armata Rossa. La quale si è fermata a pochi chilometri da Tbilisi solo dopo molte insistenze (alcune delle quali in verità poco dignitose) dei principali membri dall'Alleanza. La cui assenza ufficiale dalla vicenda (al di là di alcune riaffermazioni di principi a conflitto finito) è stata assordante.

Il Cremlino «convitato di pietra»
Il nodo-Russia è dunque il problema più delicato che si staglia all'orizzonte immediato della Nato. Troppo importante per le sue risorse energetiche e troppo armata ancora dei residui della passata forza sovietica (specie in campo atomico e missilistico) perché la sua importanza venga trascurata, ma anche troppo debole sul piano economico-finanziario e pure industriale per essere sopravvalutata, Mosca è il "convitato di pietra" la cui presenza incomberà sul tavolo dei 28 Paesi riuniti a Strasburgo (pochi giorni fa hanno fatto a tempo a essere accettate ufficialmente, senza troppo chiasso, Croazia e Albania). Con Mosca, a breve, la Nato «Obama version» tornerà a trattare, per un rinnovo degli accordi di riduzione degli armamenti nucleari e convenzionali e per verificare se in Europa sia possibile stipulare un accordo sulla "nuova architettura della sicurezza europea", come chiede con insistenza il Cremlino. Se tutto andrà bene, la Russia potrebbe smettere di considerare la Nato come il rivale numero uno e chiedere addirittura di entrarvi, come ha ipotizzato con un coup de théâthe, Dimitri Rogozin, rappresentante permanente russo a Bruxelles.

  CONTINUA ...»

3 aprile 2009
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