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Iran, sfida ad Ahmadinejad

di Alberto Negri

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12 Giugno 2009
Iran al voto, Moussavi punta sul voto delle donne

TEHERAN. Dal nostro inviato
È oggi, nel giorno più atteso, quello del voto, che si conoscono i segreti di Teheran. Senza il traffico di tre-quattro milioni di auto, si alzerà sull'altopiano il velo perenne dell'inquinamento, una nube rossastra di anidride carbonica che avvolge 12 milioni di abitanti, duecento chilometri di boulevard, superstrade, svincoli e una banlieue che attira 200mila nuovi abitanti ogni anno. Un'occasione unica per scoprire gli abitanti del nord benestante, dove risiedono i grandi bazarì e gli ayatollah importanti, ma anche per avventurarsi a sud, la città della borghesia minima, dei poveri e dei diseredati. Percorrendo Vali Asr, un viale di 15 chilometri che taglia la capitale dell'Iran da nord a sud - normalmente ci vogliono almeno due ore di auto - si scopre la verità: la rivoluzione promessa, che avrebbe dovuto liberare dall'oppressione e dall'ingiustizia sociale, non è più in marcia da un pezzo.

Eppure gli iraniani che vanno alle urne per le presidenziali provano ancora a credere in questo sistema in cui teocrazia e democrazia coabitano in una repubblica islamica che assomiglia anche a una monarchia, dove la corona, un tempo sulla testa dello Shah, fu sostituita nel 1979 dal turbante nero del seyed Imam Khomeini. I candidati sono quattro, uno solo è un religioso, Mehdi Karrubi, 72 anni, navigato esponente riformista, un altro è un ex capo dei pasdaran, Mohsen Rezai, mentre il presidente in carica, Mahmoud Ahmadinejad, ha come antagonista più accreditato per un possibile ballottaggio Mir Hussein Moussavi, ex primo ministro negli anni della guerra contro l'Iraq, tra l'80 e l'88, ispiratore dell'"onda verde", con migliaia di sostenitori in piazza per giorni. Un movimento di massa, difficile da decifrare, che secondo alcuni rappresenta una sorta di "rivoluzione di velluto", una replica di quanto avvenuto nei Paesi dell'Est.

Tozzo e robusto, con la veemenza dell'ex comandante del fronte negli anni '80, Rezai respinge di peso questa definizione. «È stato Yadollah Javani, capo dell'ufficio politico dei pasdaran, a parlare di rivoluzione di velluto, affermando che le guardie sono pronte a intervenire. Questi discorsi allarmanti sono una trovata di chi teme la sconfitta e di perdere il potere: bisognerebbe evitare sparate che possono avvelenare l'atmosfera e mettere a repentaglio la sicurezza e la democrazia nel nostro Paese». Non è una cosa di tutti i giorni che un pasdaran attacchi un altro pasdaran: ma i dibattiti televisivi e le manifestazioni di massa hanno reso questa campagna elettorale diversa da tutte le altre viste negli ultimi vent'anni, dalla morte di Khomeini. Si sono scontrati anche i massimi vertici della repubblica islamica, la guida suprema, Alì Khamenei, sostenitore di Ahmadinejad, e l'ayatollah Hashemi Rafsanjani, sponsor di Moussavi: i due che nell'89 si erano spartiti l'eredità politica di Khomeini, facendo fuori tutti gli altri aspiranti. Fu Khamenei però a diventare il Lider Maximo, il capo dello Stato - il presidente guida il Governo - colui che ha l'ultima parola su tutto. Ieri si sono incontrati e forse chiariti: prima però queste riunioni restavano sempre segrete, adesso ne hanno parlato tutte le agenzie di stampa.

Rafsanjani, il mullah milionario, che alle presidenziali del 2005 fu battuto dall'outsider Ahmadinejad, ha impiantato negli anni il suo "Iran parallelo". All'Università islamica Azad, da lui fondata, migliaia di giovani donne, per una paga giornaliera di 20 dollari al giorno, sono incollate al computer e al telefono per raccogliere i dati e monitorare le urne. «Questo è il nostro segreto: un ministero degli Interni alternativo a quello ufficiale che si incarica di verificare le operazioni di voto», sorride malizioso il figlio del capo, Mehdi Rafsanjani, 40 anni, brillante uomo d'affari che qualche tempo fa ebbe un incidente di percorso per le tangenti sulle forniture di gas alla norvegese Statoil e alla francese Total. Anche in Iran non sempre tutto fila liscio tra Corano e Metano.

Il clan Rafsanjani, con interessi economici in tutti i campi, dai pistacchi alle auto, piazzato nelle parte alta delle classifiche di "Forbes", rappresenta agli occhi di Ahmadinejad e dei suoi sostenitori il vero nemico, la classe dei mullah e dei bazarì che ha fatto fortuna dopo la rivoluzione. Un bersaglio ideale per un populista sul genere del venezuelano Chavez, che sa parlare a milioni di iraniani e nei comizi punta il dito e agita i pugni: quello che ci vuole per chi è deluso dal passato e spera ancora nel riscatto dei mostazafin, i senza scarpe, i diseredati. Anche lui, come Moussavi, ma in maniera meno spettacolare, ha mobilitato le masse. Negli stadi ha raccolto centinaia di migliaia di persone entusiaste.

La vera novità di queste elezioni sono stati proprio gli iraniani. Si sono riversati nelle piazze, hanno gridato slogan contrapposti, cantato, si sono presi in giro con feroce ironia, e tutto questo è accaduto, fino a questo momento, senza incidenti di rilievo. «Ci sono momenti della storia in cui i leader guidano le masse, ce ne sono altri in cui sono le masse che influenzano i leader: qui è avvenuta una sorta di interazione che ha condizionato tutti», dice l'anziano Ibrahim Yazdi, che tornò dall'esilio con Khomeini e fu il primo ministro degli Esteri dell'Imam. Dietro alle sue spalle, nel salotto di casa, è appesa una sua foto dove un uomo dai capelli corvini arringa furiosamente migliaia di persone. Un'immagine in bianco e nero che oggi lungo Vali Asr, improvvisamente svuotato di manifestanti e cortei, appare assai più sbiadita del ricordo della rivoluzione.

12 Giugno 2009
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