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4 / Il discorso integrale di Barack Obama a Oslo

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10 dicembre 2009

Questo mi porta al secondo punto: la natura della pace che vogliamo. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. È stata questa illuminazione a ispirare quanti stilarono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani all'indomani della seconda guerra mondiale. Dopo la devastazione di quel conflitto compresero che se i diritti umani non sono tutelati, la pace è una promessa senza senso.

Eppure spesso, troppo spesso, queste parole sono ignorate. In alcuni Paesi si omette di difendere i diritti umani lasciando intendere, ingiustamente, che questi sono principi occidentali, estranei alle culture locali o allo sviluppo di una nazione. E in America, c'è stata tensione a lungo tra quanti si definivano realisti o idealisti, tensione che lascia intuire che si renda obbligatoria una scelta drastica tra il miope perseguimento di interessi oppure una campagna senza fine per imporre i propri valori.
Io respingo questa scelta: io credo che la pace è instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, sia impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze. Le ingiustizie e le repressioni avvelenano e sopprimere le identità religiose o tribali può condurre alla violenza. Sappiamo che è vero anche il contrario. Soltanto quando l'Europa è stata finalmente libera ha potuto finalmente trovare pace. L'America non ha mai combattuto una guerra contro una democrazia e i nostri più intimi amici sono i governi che difendono i diritti dei loro cittadini. A prescindere da quanto spietatamente siano definiti, né gli interessi dell'America né quelli del mondo intero possono essere serviti negando le aspirazioni degli esseri umani.

Quindi, anche quando rispetta la cultura e le tradizioni uniche di Paesi diversi, l'America si farà sempre portavoce di quelle aspirazioni che considera universali. Noi testimoniamo la calma dignità di riformatori quali Aung Sang Suu Kyi, il coraggio degli abitanti dello Zimbabwe che hanno votato pur rischiando le botte, le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in silenzio per le strade dell'Iran. Che i leader di quei governi temano le aspirazioni del loro stesso popolo più della forza e del potere delle altre nazioni la dice lunga. È responsabilità di tutti i popoli liberi, di tutte le nazioni libere far presente a quei movimenti che la speranza e la Storia sono dalla loro parte.

Permettetemi di aggiungere anche un'altra cosa: promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un'azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta.
Alla luce degli orrori commessi durante la Rivoluzione Culturale, quando Nixon incontrò Mao a tutti parve qualcosa di imperdonabile, eppure malgrado tutto di sicuro quell'incontro aiutò la Cina a scegliere una strada nuova, lungo la quale a milioni sono usciti dalla povertà e sono entrati in contatto con le società aperte. L'impegno di Papa Giovanni Paolo II in Polonia creò uno spazio giusto non soltanto per la Chiesa Cattolica, ma anche per i leader dei lavoratori come Lech Walesa. Gli sforzi di Ronald Reagan finalizzati a controllare le armi e abbracciare la perestroika non soltanto migliorarono i rapporti con l'Unione Sovietica, ma diedero potere ai dissidenti in tutta l'Europa dell'Est. Non vi è alcuna chiara formula o ricetta, ma dobbiamo cercare quanto meglio possiamo di bilanciare isolamento e impegno, pressioni e incentivi, così che i diritti umani e la dignità facciano progressi col passare del tempo.

Terzo punto che vorrei sottolineare è che una pace giusta non comporta soltanto diritti politici e civili: deve includere anche sicurezza economica ed opportunità, perché una pace vera non significa soltanto essere liberi dalla paura, ma anche liberi dalla necessità.
Indubbiamente, è vero che lo sviluppo di rado mette radici se non vi è sicurezza. Ma è altrettanto vero che la sicurezza non può esistere laddove gli esseri umani non hanno accesso in modo sufficiente al cibo, all'acqua pulita, o alle medicine di cui necessitano per sopravvivere. Sicurezza non può esservi là dove i bambini aspirano a un'istruzione decorosa o a un lavoro che dia sostegno all'intera famiglia. La mancanza di speranza può far marcire un'intera società dal di dentro.

Ecco per quale motivo aiutare gli agricoltori a dar da mangiare alla loro gente, o alle nazioni affinché educhino i bambini e curino gli ammalati non significa soltanto fare carità. Per questo stesso motivo il mondo deve essere unito per combattere il cambiamento del clima. Ormai la scienza è alquanto d'accordo che se non interverremo, dovremo far fronte a molti più episodi di carestia e siccità e emigrazione forzata di sfollati, fattori che alimenteranno molti più conflitti per decenni. Per questa ragione, non sono soltanto gli scienziati e gli attivisti a esortare a un'azione tempestiva e mirata: sono anche i capi degli apparati militari a dirlo, e molti altri che hanno capito che da ciò dipende buona parte della nostra comune sicurezza.
  CONTINUA ...»

10 dicembre 2009
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