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Dalla sanità all'elettronica
in India l'innovazione è low cost

di Marco Masciaga

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14 marzo 2010
In India l'innovazione è low cost

«Qui è più pulito che in un ospedale pubblico. E, rispetto a una clinica privata, so che la mia assicurazione basterà a coprire le spese. Perché sarei dovuto andare altrove?». H.V. Sudharsan è un contadino di 47 anni originario di Hosagavi, un villaggio a 3 ore di auto da Bangalore. È stato appena operato di cancro al colon e si è potuto permettere l'intervento grazie a Vaatsalya, una catena di ospedali specializzati in affordable healthcare, letteralmente "sanità a buon mercato". In certi paesi sarebbe un ossimoro. Qui in India, grazie a una miscela di spirito imprenditoriale, arte di arrangiarsi e reminiscenze gandhiane, non è che l'ennesimo esperimento riuscito nel più vasto e caotico laboratorio mondiale dell'innovazione a basso costo.

«Da noi - spiega Vinod Appaiah, il manager che gestisce la struttura di Mandya - un parto costa dalle 4 alle 5mila rupie (58-73 euro), in una media clinica 20mila, in quelle al top dai 50mila in su». L'idea di creare una catena di buoni ospedali a basso costo risale al 2004 ed è venuta ad Ashwin Naik, l'attuale Ceo di Vaatsalya. «Fino ad allora - spiega - il modello prevalente in India era quello che io chiamo "Taj & Oberoi", dal nome delle due catene di hotel di lusso: pochi e costosi ospedali concentrati nei grandi centri».
Oggi Vaatsalya ha nove cliniche in Karnataka, mira a espandersi in Maharashtra e Andhra Pradesh e a raggiungere il break even entro il 2011. E soprattutto vuole dimostrare la scalabilità di un modello di business basato sugli affitti e stipendi più bassi delle città di media grandezza; sulla specializzazione nei settori che garantiscono volumi elevati (i ginecologi sono a tempo pieno, l'ortopedico no) e su un'attenzione spasmodica ai costi.

Su questo fronte un aiuto insperato sta arrivando da quelle multinazionali che vedono nell'India un laboratorio per lo sviluppo di soluzioni innovative. Chi sta investendo con più convinzione è General Electric Healthcare che di qui al 2015 spenderà 3 miliardi di dollari per sviluppare nuove tecnologie a basso costo. Uno degli ultimi prodotti si chiama "Mac i" ed è un elettrocardiografo portatile a batterie da 25mila rupie (365 euro). «L'obiettivo è abbassare i costi di accesso fino a 9 rupie a esame», spiega il presidente e Ceo di GE Healthcare per l'Asia del Sud V. Raja. «Presto inizieremo a esportarlo in altri paesi in via di sviluppo e non».
Un progetto in linea con quanto scritto da Jeffrey R. Immelt in un articolo pubblicato dalla Harvard Business Review in cui il presidente e Ceo di General Electric definisce reverse innovation l'approccio da affiancare a quello di glocalization. Non più solo prodotti pensati nei paesi ricchi e adattati alle esigenze di quelli in via di sviluppo, ma anche soluzioni messe a punto in Cina e India per i mercati locali e in grado di "funzionare" pure in quei paesi maturi dove i tassi di crescita si stanno appiattendo.
Chi sembra aver colto la portata della trasformazione è ReaMetrix, una società biotech di Bangalore. Uno dei loro prodotti di punta è una linea di reagenti per monitorare il livello di immunodeficienza nei pazienti affetti da Aids che costa un quinto dei competitor. Non solo. «I reagenti - spiega il fondatore e Ceo della società Bala Manian - sono in forma secca anziché liquida e non necessitano di essere conservati a bassa temperatura», un'operazione apparentemente banale che in gran parte dell'India è impossibile. Lo scorso anno ReaMetrix ha ottenuto il via libera della Food and Drug Administration per iniziare le esportazioni e, secondo Manian, ci sono buone chance che il prodotto sia adottato anche nei paesi dove la catena del freddo funziona. «I centri prelievi - spiega - potranno unire i campioni ai reagenti, senza dover inviare le fiale nei centri di analisi. È un'innovazione pensata per i paesi poveri che si rivelerà utile anche in quelli ricchi».

Il mondo della sanità è uno di quelli più attraenti per i profeti indiani del low cost. Ma non è l'unico. Nel settore degli elettrodomestici è atteso a breve il lancio del Chotukool, un piccolo frigorifero senza compressore alimentato a corrente o batteria, progettato dalla Godrej & Boyce. L'aspetto è simile a una valigia frigo, ma rispetto a un concorrente tradizionale il costo è inferiore di un terzo. Un risultato ottenuto abbassando da 200 a 20 le parti che lo compongono e facendolo distribuire dai clienti stessi anziché da una tradizionale rete commerciale. Sempre sul fronte domestico è recente l'ingresso di Tata Chemicals nel mercato dei purificatori d'acqua: lo Swach non necessita di essere allacciato né alla rete idrica né a quella elettrica ed è disponibile in due versioni da 749 e 999 rupie (11-15 euro).
Siccome in India l'incapacità di distribuire acqua pulita è pari solo a quella di fornire corrente elettrica, l'altro settore in cui la concorrenza va facendosi serrata è quello dell'illuminazione a energia solare. Si va da un'impresa globalizzata come d.light (sede in India, fabbrica in Cina e management americano) a una orgogliosa di assemblare le proprie lampade appena fuori Delhi come Cosmos Ignite. Entrambe mettono sul mercato sia prodotti a basso costo (500 rupie, 7 euro), che apparecchi più sofisticati in grado di far luce e ricaricare i cellulari. «Io la chiamo "frugal innovation"», spiega Amit Chugh, fondatore e Ceo di Cosmos Ignite. «Siamo cresciuti con pochi mezzi, capitali modesti e un buon livello di scolarità. Non credo che ci sia nessuno meglio attrezzato di noi per mettere a punto soluzioni innovative rivolte a chi ha un basso potere d'acquisto».

  CONTINUA ...»

14 marzo 2010
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