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Il Ceo di Amd: «Ecco come uscire dalla crisi con l'aiuto arabo»

di Antonio Dini

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13 Novembre 2008
Nòva 100
Bit di sopravvivenza

Quando si pensa a lei, la si pensa sempre come l'«altra». Amd è l'«altra» azienda che si occupa di microprocessori. Amd è l'«altro» produttore di schede grafiche. Amd è l'«altra» azienda in un mondo tecnologico dominato da colossi come Hp, Ibm, Microsoft e Intel. Dirk Meyer, nato nel 1961 a LaGrange nell'Illinois e sposato con tre figlie, è il volto nuovo di Amd che dovrà cercare di fare la differenza. E rendere Advanced Micro Devices un protagonista stabile e non l'eterna «altra» dell'industria del silicio.
La missione di Meyer, da poco più di 100 giorni numero uno di Amd, è infatti quella di riportare Amd in sella al cavallo selvaggio sul quale era riuscita con fatica a salire. Perché la storia di Amd è antica almeno quanto quella di Intel: entrambe nate negli anni Sessanta (nel 1968 Intel, nel 1969 Amd), entrambe partner della prima ora con Ibm per fornire nel 1982 i processori a quella cosa nuova che veniva chiamata P.C., con le lettere maiuscole e il punto. Entrambe in grado di costruire processori sempre più piccoli e con sempre più transistor, rispettando appieno la legge di Moore.
Però, oggi Intel – nonostante le cause intentate da vari antitrust e altri problemi minori – ha superato la sua personale crisi a cavallo del nuovo millennio e veleggia poco al di sotto dei 40 miliardi di dollari di fatturato l'anno con 7 miliardi di utili netti, mentre Amd sta di nuovo annaspando. Sei miliardi di fatturato nel 2007, conti in rosso per più di tre, trimestri altalenanti con i fondamentali che lampeggiano tra il verde e il rosso, tra il buono e il cattivo. E un cambio al vertice che ha costretto a ritirarsi dal posto di numero uno il «messicano di ferro», l'indomabile Hector Ruiz, il vero artefice della spettacolare rimonta di Amd negli anni Novanta e all'inizio di questo decennio.
Più che di cattivo management per Amd si dovrebbe parlare di eccesso di ambizione. Dopo aver tallonato sempre più da vicino Intel, proponendo generazione dopo generazione di processori aggressivi e potenti a partire dalla serie K e poi dagli Athlon (e dagli Opteron), Amd sembrava quasi avercela fatta. Era un momento favorevole, forse irripetibile: un momento, a cavallo del millennio, in cui il colosso di Santa Clara, nonostante le dodici fabbriche attive e le migliaia di ingegneri assunti nei centri di ricerca, sembrava sepolta per sempre sotto le scelte sbagliate e i limiti dei Pentium e dei Centrino. Poi qualcosa è andato storto.
Forse i 5,4 miliardi di dollari spesi nel 2006 per acquistare il produttore di schede grafice Ati, forse l'eccessivo investimento in ricerca e sviluppo (oggi tra il 20 e il 30% del fatturato), forse la strategia di alleanze e partnership che hanno disperso l'impatto sul mercato di Amd, forse il costo folle che la tecnologia ha raggiunto (costruire una fabbrica con lavorazione a 32 nanometri costa più di 600 milioni di dollari).
«In realtà, sotto la guida di Ruiz l'azienda ha fatto tutti i passi strategici necessari che doveva fare. Ha messo le carte sul tavolo. Adesso siamo in un'era diversa: dobbiamo concentrarci sull'esecuzione giorno per giorno. Dobbiamo insomma riprendere slancio e tornare a essere forti». Meyer è un veterano del settore. Viene dalla tecnologia: ha lavorato prima con Intel ai processori embedded 8 e 16 bit, poi con Dec (dove ha sviluppato i processori Alpha), e infine dal 1995 con Amd dove ha collaborato al progetto dei K7. Ha mangiato, come si dice, pane e Cpu per tutta la vita. E ha capito quanto siano importanti la ricerca e la progettazione, ma anche quanto costi caro produrre microprocessori.
«La strategia industriale di Amd, anche in questo momento di crisi, è stata quella di creare delle alleanze che ci permettessero di concentrarci sulla progettazione e sulla commercializzazione dei prodotti, facendo leva sui costi di produzione. Abbiamo trovato dei partner di capitali che hanno capito subito quanto fosse potenzialmente redditizio investire nel nostro mercato soprattutto adesso che c'è un momento di crisi mondiale. E abbiamo fatto nascere The Foundry».
The Foundry è la società nuova, che esternalizza la produzione dei processori (e quindi le fabbriche) di Amd con la partecipazione del fondo sovrano d'investimento di Abu Dhabi, che ha costituito per questo la società Advanced Technology Investment (da non confondere con l'Ati delle schede grafiche acquistata dalla stessa Amd). Un investimento miliardario, nato sul modello di lavoro che è stato portato in casa proprio con l'acquisita Ati (che produce con questa modalità "fabless" le sue schede grafiche insieme al colosso taiwanese Tsmc) e che ha visto in realtà una prova generale anni addietro con la fondazione insieme alla giapponese Fujitsu di Spansion nel settore delle memorie intelligenti. E che si unisce alle altre alleanze tecnologiche, segnatamente quella con Ibm ma non solo.
«Oggi siamo proiettati verso un futuro di cambiamento tecnologico: per i nostri clienti consumer è sempre più importante la parte della creatività e della multimedialità in alta definizione, mentre per quelli aziendali la parola chiave è virtualizzazione. In futuro l'accelerazione che anche il cloud computing sta già portando al nostro mercato diventerà tale che il prossimo paradigma tecnologico vedrà l'incorporazione del processore grafico all'interno della Cpu. E stiamo lavorando alla creazione di uno strato di software, un "middleware", per rendere facile agli ingegneri del software sfruttare i processori multi-core e il parallelismo in maniera astratta dal silicio. Ma soprattutto stiamo lavorando con i nostri talenti, che sono tra i migliori sul mercato».
  CONTINUA ...»

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