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L'insicurezza fa parte della condizione umana, solo che oggi la percezione e la consapevolezza dei rischi (intesi, con Ulrich Beck, quale messa in scena e anticipazione di possibili catastrofi) sono enormemente aumentate in un mondo globalizzato le cui parti sono interconnesse, ma dove la comprensione dei processi è diventata più opaca e i pericoli meno calcolabili.
Dobbiamo dunque arrenderci all'avvento del peggio malgrado la storia mostri il frequente risorgere dei popoli che hanno attraversato le prove più dolorose? Si pensi solo all'Italia: nel Rinascimento, periodo in cui è saccheggiata da eserciti stranieri e lacerata da interne divisioni politiche, alcune sue parti riescono a innalzarsi alle vette della cultura umana; essa trova poi la sua riscossa dopo la disastrosa sconfitta di Caporetto e si risolleva, infine, rapidamente nella fase della Ricostruzione, dopo che il 65% del potenziale industriale era stato distrutto dalla guerra e il salario medio ammontava, nel 1945, a circa la metà di quello del 1939.
Possono, da soli, simili esempi, avere effetti sulla realtà odierna? La fede e la volontà di far credere producono, senza dubbio, mutamenti decisivi. Suscitano grandi speranze che, in campo politico, tendono però gradualmente a estinguersi qualora non s'intravedano scadenze ragionevoli per la loro realizzazione (a meno che non vengano manipolate e ridotte a dogmi da un'ideologia armata).
Norberto Bobbio riteneva che l'etica del laico non dovesse basarsi sulla speranza, ma sulla responsabilità. Una certa dose di fiducia sulla nostra attitudine a sfidare i pericoli è benvenuta se funziona da anabolizzante, da artificiale ormone della crescita. Ma non basta, perché il futuro dipende dalla grande politica, dalle circostanze e dalla capacità di ciascuno di incidere, per quanto è possibile, sull'elaborazione delle scelte collettive.
Yes, we can? Almeno proviamoci.